Emergenza precari e autonomia degli enti di ricerca e delle università dopo la “riforma” del lavoro pubblico
Soluzioni insufficienti per vecchi e noti problemi. Serve un cambio di rotta già nell’atto di indirizzo e un investimento straordinario di risorse nei settori, partendo dalle stabilizzazioni.
Abbiamo espresso nei giorni scorsi una prima valutazione sul testo novellato dei decreti legislativi 165/01 e 150/09 licenziati lo scorso venerdì 19 maggio dal Consiglio dei Ministri.
Si tratta della prima tappa di un percorso complesso la cui posta in gioco sarà rilevante per il lavoro pubblico e per i settori della conoscenza. Una cosa è certa: emerge ciclicamente l’anomalia italiana per la quale, benché nel dibattito pubblico sia comunemente condiviso che i paesi che vogliono crescere devono investire in ricerca e innovazione, il nostro è l’unico paese in Europa non solo a non avere un piano strategico, ma ad aver tagliato questo capitolo di spesa negli anni della crisi mentre tutti gli altri aumentavano la quota di Pil ad esso dedicata. Il governo deve urgentemente prendere atto che occorre indirizzare strumenti normativi e risorse finanziarie specifiche per questi settori per consolidare nel paese leve per lo sviluppo. Fino ad oggi ciò non è avvenuto.
Le più immediate conseguenze di questa miopia si riflettono sui precari della conoscenza per larga parte esclusi dal provvedimento di stabilizzazione. Non meno problematico il contrasto non affrontato, tra la disciplina del D.Lgs 150/09 e lo statuto di speciale autonomia spettante alle Università e agli enti di ricerca. Chiediamo al governo di assumere la responsabilità di un chiaro cambio di rotta su questi temi a partire dall’atto di indirizzo dell’Aran che aprirà la discussione per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro e proseguendo con lo stanziamento di risorse dedicate ad un piano straordinario di stabilizzazioni e assunzioni.
Precariato e risorse
La principale specificità nei settori della ricerca e dell’università riguardo al ricorso al lavoro precario risiede nei numeri. Negli enti di ricerca sono più di diecimila i precari, su ventimila addetti con contratto di lavoro stabile, di cui 4 mila con contratto a tempo determinato, 4 mila con assegno di ricerca, 1.500 borse, 1.000 co.co.co. Nelle università sono circa 50mila rispetto ai circa 50 mila docenti stabili (in calo di 13 mila unità dal 2008 ad oggi). Il taglio operato negli ultimi dieci anni ai fondi ordinari, combinato al blocco del turn over, ha progressivamente stravolto gli obiettivi del ricorso a queste figure divenute la principale risposta ai fabbisogni di risorse per svolgere le attività ordinarie di ricerca, di didattica e di funzionamento. In questo processo di sostituzione di lavoro stabile con lavoro stabilmente precario di ricercatori, tecnici e amministrativi, l’impiego di figure parasubordinate è cresciuto esponenzialmente. L’assegno di ricerca è divenuta la figura emblematica di questa mutazione. I numeri indicano che la struttura funzionale reale degli Atenei e dei centri di ricerca è affidata a questo personale ultraprecario. La recente battaglia per l’estensione del sussidio di disoccupazione Dis-Coll anche alle forme di parasubordinazione specifiche della ricerca, ha fatto emergere nella discussione pubblica l’allarmante condizione in cui ad esempio assegnisti di ricerca, borsisti, collaboratori, versano dal punto di vista dei diritti, del salario, della condizione di lavoro. Non è dunque pensabile mettere a tema, come ha fatto il governo, un percorso di così detta “stabilizzazione” escludendo nei nostri settori il personale parasubordinato. Vogliamo comunque ricordare che esiste un'altra questione fondamentale non affrontata nella riforma della PA che rende effimero il provvedimento di stabilizzazione anche per il personale precario con contratto a tempo determinato, cioè l’assenza di un finanziamento specifico e adeguato agli obiettivi della norma, cioè “stabilizzare il precariato storico”. Chiediamo al governo che nel quadro degli impegni assunti nell'accordo del 30 novembre per il finanziamento di un piano straordinario di stabilizzazione, si apra un ragionamento complementare che riguardi le risorse per lo sviluppo stanziate nella legge di bilancio per la ricerca pubblica.
La FLC CGIL insieme ad Adi e altre associazioni ha recentemente sostenuto la petizione “#ricerca è futuro: investiamo sui ricercatori!” per destinare in modo più efficace le risorse che il precedente governo Renzi aveva dedicato alla ricerca. Crediamo questa debba diventare una priorità politica nel disegno della prossima legge finanziaria. Ricordiamo infatti che il governo Renzi ha messo a tema la necessità di finanziare la Ricerca per investire nella crescita del Paese programmando l’investimento di circa 1 miliardo 500 milioni di euro in dieci anni per la costruzione di un polo di “eccellenza”, lo Human Technopole nell’area ex Expo di Milano gestito interamente dall’IIT. Riteniamo da questo punto di vista a dir poco allarmante la notizia che nei giorni scorsi al Miur si sarebbe raggiunto un accordo per utilizzare 250 dei circa 450 milioni di euro depositati nelle casse dell’IIT e mai utilizzati per promuovere “progetti di ricerca di interesse nazionale per lo sviluppo del sistema economico del Paese, nonché azioni destinate all'ingresso dei giovani nel mondo della ricerca gestiti direttamente dai vertici dell’IIT stesso. Al di la delle pesanti critiche di merito piovute dal mondo accademico e scientifico sull' operazione IIT/Tecnopolo, il nodo politico rilevante è che la somma equivalente a quanto sottratto negli anni ad Università ed Enti di Ricerca venga posta su di un progetto sotto l’egida ideologica della ricerca delle eccellenze. La ricerca come è noto per generare successi ed “eccellenza” necessità di una infrastruttura di base ampia e solida. Smantellare, a partire dal sud, attraverso il definanziamento, la rete di ricerca e spostare le risorse verso un unico, avventuristico progetto è una scelta sbagliata. Per quasi dieci anni, mentre negli Atenei i tagli generavano espulsioni di massa di precariato, l’IIT è stato finanziato con 100 milioni di euro l’anno accantonando, in base alle più recenti analisi, oltre 20 milioni di euro annui di fondi non spesi.
Occorre, come proposto dalla senatrice Cattaneo, utilizzare le risorse ferme ed inutilizzate dell’Istituto Italiano di tecnologia, reindirizzare il piano di investimento sul Tecnopolo verso il rifinanziamento dei fondi ordinari degli Enti di Ricerca e delle Università per la ricerca di base e le assunzioni di ricercatori, cui sommare i 75 milioni di euro destinati per il 2017 alle cattedre Natta. Questo è l’impegno che chiediamo di assumere al Governo per rilanciare la ricerca necessaria allo sviluppo del Paese.
Compatibilità tra autonomia statutaria e D.Lgs. 150/09
Il testo novellato del D.Lgs 150/09 non affronta il contrasto tra la disciplina del ciclo della performance e lo statuto di speciale autonomia spettante alle Università e agli enti di ricerca.
Nel decreto appena approvato, l’obiettivo è il rafforzamento delle attribuzioni e dell’autonomia decisionale degli Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV) nella valutazione e nel monitoraggio della performance, con un meccanismo destinato ad operare secondo linee guida e sotto la supervisione del Dipartimento della Funzione Pubblica, nonché con la partecipazione attiva dei cittadini e degli utenti finali dei servizi. In tutta evidenza un simile disegno contraddice le caratteristiche degli stessi servizi resi dall’Università e dagli enti pubblici di ricerca; servizi che, in vario modo e con diverse articolazioni, attengono comunque alla ricerca scientifica e non c’è possibilità che vengano valutati dai “cittadini e degli utenti finali dei servizi”. Non è un caso che si sia consolidato nel tempo un sistema di norme che costruiscono un impianto di governance autonoma e differente dal resto della PA per enti di ricerca e università, dal d.lgs. n. 213 del 2009 alla 240 del 2010, fino all’ultima 218/16. Sottoporre la valutazione dell’attività degli enti di ricerca e delle Università alle medesime regole e procedure previste in generale per le altre branche dell’amministrazione, è in contraddizione con tutte le norme fin qui prodotte dal legislatore. Per altro l’autonoma competenza della comunità scientifica a valutare l’efficienza della rispettiva amministrazione è un principio che discende direttamente dalla garanzia costituzionale della libertà di ricerca, di cui all’art. 33 della Costituzione.
Riteniamo dunque grave che non si sia colta l’occasione della modifica del D.Lgs. 150/09 per sancire formalmente l’autonomia del sistema di indirizzo e valutazione dell’azione delle Università e degli enti di ricerca, attraverso l’esplicita previsione dell’inapplicabilità delle disposizioni del decreto alle amministrazioni del settore della conoscenza e il rinvio alla disciplina di un autonomo sistema. In un comparto in cui tutte le professionalità presenti sono escluse dall’applicazione diretta della Brunetta tranne i tecnici/amministrativi degli Enti e delle università, riteniamo che l’atto di indirizzo debba coprire questo vulnus legislativo escludendo per intero anche queste amministrazioni dall’applicazione del D.Lgs. 150/09. Questo allo scopo, in attesa di un eventuale provvedimento organico che riformi la materia nei settori della conoscenza, di rimettere nella potestà delle comunità scientifiche interne e all’autonomia delle amministrazioni tecnico-scientifiche la fissazione dei propri obiettivi e il controllo di adeguatezza della propria azione in linea con i principi che discendono dall’art. 33 della costituzione da cui derivano sia l’art. 12 del CCNL Ricerca vigente che l’art. 15 comma 2 del 165/01.
La politica deve capire che se il tema è la Ricerca, l’agenda deve comprendere interventi mirati a sostegno della rete esistente, rafforzando la governance autonoma delle istituzioni di ricerca a partire dall’esclusione di queste istituzione dall’applicazione della legge Brunetta; prevedendo un finanziamento dedicato all’assunzione di personale di ricerca e all’aumento strutturale dei fondi ordinari di Enti e Università utilizzando subito i 450 milioni di euro accantonati dall’IIT e inutilizzati
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