Sinopoli: servono scelte coraggiose e innovative
L’intervista di Pino Salerno al Segretario generale della FLC CGIL pubblicata sul Giornale della effelleci.
Le conseguenze di una nuova questione meridionale su tutto il paese. L’autonomia differenziata non è la soluzione. La salvezza delle nuove generazioni e il futuro del paese nell’istruzione diffusa e nella lotta alle diseguaglianze. L’impegno del sindacato.
Segretario Sinopoli, il Rapporto Svimez 2018 rivela una situazione gravissima del nostro Paese, in cui c’è una parte che “tira”, il nord, e una parte che ristagna, il sud. Ma è davvero così?
Mi sembra di poter affermare che il Rapporto SVIMEZ abbia fotografato con chiarezza la situazione italiana: il Centro-Nord trova soluzioni concrete per fronteggiare la crisi economica, ma lo fa a spese del Mezzogiorno. È da questa novità che trae origine l’insistenza sull’autonomia differenziata, soprattutto nella formulazione elaborata dai presidenti del Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, con l’allargamento a 23 settori chiave e strategici, non previsti dall’articolo 19, comma 5 della Costituzione. È per questa ragione che in quella formulazione hanno inserito, stravolgendone il senso, la spesa storica e soprattutto l’istruzione regionalizzata. Non è così che si risolvono i problemi dell’Italia. Ha ragione la SVIMEZ: “se l’Italia rallenta, il Sud subisce una brusca frenata”. Ecco perché occorrono politiche di ricostruzione economica dell’intero Paese, per evitare quel doppio divario più volte segnalato dagli studiosi: l’Italia si allontana dall’Europa, e il Mezzogiorno si allontana dal Centro-Nord. Mi chiedo dunque se chi governa il Nord non voglia invece approfittare di questa situazione per rendere strutturale il secondo divario, accorciando invece il primo. Ma appunto, lo si farebbe a spese di 25 milioni di persone, che abitano e vivono al Sud. E possiamo definire questa come la maggiore ingiustizia sociale del nostro Paese. Un’ingiustizia che si può risolvere esclusivamente con politiche nazionale, sull’istruzione come nella sanità.
E non solo. Svimez ci dice che il gap occupazionale tra nord e sud ha ormai raggiunto la quota di 3 milioni di persone. Un’enormità.Ma aggiungo anche che per la metà si tratta di persone altamente qualificate e con capacità cognitive elevate. Cosa vuol dire?
Semplifico così: la disoccupazione al sud è un fenomeno che colpisce soprattutto i giovani laureati e di talento. Non è uno spreco per l’Italia? Non è giunto il momento in cui, invece di pensare ad autonomie farlocche, si elaborino strategie per dare occupazione a questi giovani talenti? L’Italia non può permettersi una tale incresciosa condizione di disagio che colpisce un milione e mezzo di giovani al sud, ma altrettanti al nord, dal momento che il numero dei NEET, cioè dei giovani che non studiano e non cercano lavoro, ha oltrepassato la soglia dei 3 milioni. Un altro dato mi sembra significativo. La tendenza degli ultimi dieci anni ha visto crollare le immatricolazioni all’università. Meno della metà dei giovani usciti dalle scuole secondarie di secondo grado ha avuto la possibilità di accedere all’università. E l’Italia ha perso un esercito di oltre un milione di giovani che non hanno avuto accesso all’alta formazione. Un altro, enorme spreco. Un’altra forma di selezione darwiniana, subita da ragazze e ragazzi. Infine, nello stesso periodo, un altro esercito si stava creando: quello dei giovani meridionali che fuggivano e ancora fuggono nelle università del nord, a Milano, a Torino, a Bologna. Ogni anno fuggono 25 mila studenti meridionali verso il nord. E così, come spesso si dice, i figli dei ricchi milanesi se ne vanno a Oxford, mentre i figli dei ricchi meridionali se ne vanno a Milano. Non appaia questa come una battuta di spirito, è la realtà con la quale fare i conti, soprattutto col nuovo ministro, Fioramonti. Il diritto allo studio, e a studiare non a mille chilometri di distanza, perché costretti e non per volontà, è la primavera riforma dell’università da affrontare con giudizio, risorse e razionalità. Altrimenti, anche in questo caso la selezione diventa darwiniana, o di censo, se si vuole.
Svimez sottolinea l’incremento dei nuovi flussi migratori verso il nord del Paese.
Ha ragione il segretario generale della CGIL Landini – e SVIMEZ purtroppo lo conferma – quando sottolinea che il vero problema italiano non è rappresentato dai migranti che arrivano sulle nostre coste, ma da quella migrazione interna, da sud a nord, che ha raggiunto cifre importanti. Secondo i dati forniti da SVIMEZ, le persone che sono emigrate dal Mezzogiorno sono state oltre 2 milioni nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017, di cui 132.187 nel solo 2017. Ma vi è di più. Di queste ultime 66.557 sono giovani (50,4%, di cui il 33,0% laureati, pari a 21.970). Di fatto è la conferma che vi è stato forse il più massiccio esodo di ceto intellettuale da sud a nord mai vissuto e registrato nel corso della nostra storia repubblicana. Anche in questo vi è l’impoverimento del nostro Mezzogiorno. La ripresa dei flussi migratori rappresenta la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via via allargata anche al resto del Paese. E i numeri sono davvero impressionanti: i cittadini provenienti dall’estero che vivono nel Mezzogiorno erano circa 75.000 nel 2017, contro i 132.187 italiani che, nello stesso anno, si sono spostati dal Sud al Centro-Nord e all’estero. Un vero massacro sociale e culturale, e di prospettive, per il Mezzogiorno. Altro che pericolo di invasioni dall’Africa.
Ma il rapporto SVIMEZ cita anche una condizione drammatica della scuola nel Mezzogiorno, sia per l’edilizia che per tasso di abbandono.
La scuola italiana vive una fase di drammatica crisi, che d’altra parte condivide con altri Paesi europei. L’Italia è sommersa da tante forme di disuguaglianze sociali e territoriali, che tradiscono ampiamente il dettato costituzionale. La scuola, per effetto di scelte politiche, ha purtroppo partecipato alla costruzione di nuove disuguaglianze e all’ampliamento o al consolidamento delle vecchie forme di diversità. Si pensi ad esempio alle nuove forme di esclusione, o al numero altissimo di abbandoni precoci mai problematizzati e risolti positivamente, o a quella vera e propria disperazione esistenziale dei cosiddetti giovani NEET, per i quali non c’è futuro, in un eterno presente vago e senza senso. Una scuola costituzionalmente orientata dovrebbe ripartire da nuove sensibilità verso le disuguaglianze sociali e territoriali, ovunque esse si annidino, sostituendo principi e didattiche di inclusione all’esclusione, imponendo politiche di recupero degli abbandoni, restituendo ai giovani NEET la dignità calpestata e perduta. La capacità di mettere al centro lo studente non come una lavagna vuota su cui scrivere il sapere disciplinare, ma come un pieno di esperienze di vita tutte diverse e non gerarchizzabili, è condizione di un progetto per il superamento delle disuguaglianze, innestato sul riconoscimento delle diversità. La scuola è il terreno fondamentale su cui si gioca la grande partita dell’accoglienza.
Sul piano generale, che tipo di scuola vogliamo come sindacato?
La transizione verso il XXI secolo ha, di fatto, reso evidenti le grandi difficoltà e i problemi irrisolti che il Novecento ci ha consegnato, in materia di scuola e alta formazione. Tutti i modelli scolastici europei portano con sé le scorie di un Novecento che, pur avendo registrato enormi successi nella alfabetizzazione e nella scolarizzazione di massa, ad esempio, manifesta oggi limiti ed errori. Tentativi di riforme e di sperimentazione (Francia, Germania, Paesi nordici soprattutto, Italia) sono stati effettuati, ma la sfida con il XXI secolo non è ancora stata vinta. La crisi del sistema scolastico europeo, e di quello italiano in particolare, è, innanzitutto e per lo più, una crisi di senso. Lo segnalano tutti gli indicatori internazionali, soprattutto l’OCSE, tra gli altri, che invita gli Stati europei a tornare all’insegnamento di base, con strumenti didattici del XXI secolo, dal momento che esso ha verificato la deriva estremamente negativa dei saperi fondamentali tra le nuove generazioni. Anche nel Rapporto OCSE 2018 si fa riferimento all’impoverimento nelle nuove generazioni di ciò che una volta veniva considerato il senso ultimo dell’apprendimento: leggere, scrivere e far di conto. Ma se non si legge più, e se la scrittura è determinata dai tagli al vocabolario imposti dai nuovi media, e se il far di conto non fa più uso della memoria perché fa ricorso alle app sugli smartphone, vuol dire che ci troviamo dinanzi a una novità epocale sul piano della relazione tra le nuove generazioni e il senso stesso di ciò che si conosce, o si apprende, a scuola. In Italia, consapevoli di questa novità – forse drammatica – intellettuali e specialisti hanno seguito due piste contrapposte: c’è chi predica il ritorno all’autentica scuola gentiliana, con i metodi tipici di quell’insegnamento, classista e censorio, e con la fatale selezione sociale che essa porta con sé; e c’è chi invece, sulla base delle ricche riflessioni di Edgar Morin in Francia o di Howard Gardner e Martha Nussbaum negli Stati Uniti, punta a ricostruire il rapporto intersoggettivo tra docente e studente, riducendone la distanza, non solo anagrafica, ma culturale, e rivalutando la funzione sociale di entrambi, per generare cittadini consapevoli e maturi, piuttosto che subalterni sudditi. L’Italia dunque si trova in questo guado, nel quale ciò che viene dal passato, il modello gentiliano, non è ancora finito, ma il nuovo stenta a nascere (per parafrasare Antonio Gramsci).
Dove guardare per una scuola all’altezza delle sfide del XXI secolo?
Partiamo da qui, dalla scuola “costituzionale”, quella inclusiva, e cerchiamo dicapire come omogeneizzare gli interventi riformatori con quella bussola. Inseguire le emergenze va anche bene, poiché la soluzione immediata ai tanti problemi esistenziali che emergono quotidianamente nelle nostre scuole va trovata, razionalmente, con buon senso, e con la collaborazione delle comunità scolastiche. Perfino l’aumento delle risorse per la scuola pubblica è un dovere, portando gli investimenti almeno a raggiungere la media europea. Così come è un dovere stabilizzare quella quota rilevantissima di docenti precari e di personale precario, che attende da anni una riposta concreta e seria. Ed è un dovere dare soluzione alla annosa questione delle infrastrutture nell’istruzione, elementi sostanziali e decisivi per dare il meglio a docenti, personale, studenti e famiglie, in termini soprattutto di sicurezza e serenità. Ma oggi anche questo non basta più. Occorre lo sguardo lungo, che riesca a partire però dai bisogni autentici delle nuove generazioni, dalle loro aspettative, dai loro desideri, dalla immagine che essi hanno del proprio futuro. E fare in modo che nessuno resti più indietro, come appunto ci insegna la Costituzione. Che tipo di scuola vogliamo nel XXI secolo, allora? Questo è l’interrogativo che dovremmo porci, come sindacato, come classe politica, come governo, come società. La risposta non può che arrivare da un grande, intenso e consapevole dibattito pubblico e collettivo. La nuova scuola non può nascere nel chiuso di una stanza, o da tecnici ministeriali. La scuola pubblica è costituzionalmente il tesoro dell’intera società, da custodire con estrema cura e cautela. E non un servizio qualsiasi da tagliare a seconda delle scelte di bilancio pubblico, come invece è accaduto in questi anni. Andare a scuola,conoscere, è dunque una relazione sociale complessa attraverso la quale si rimuovono gli ostacoli che le diseguaglianze originarie ci consegnano, non il luogo in cui le diseguaglianze si moltiplicano. Purtroppo, il cedimento culturale e collettivo a lasciare che “il ciò che si ha”, il capitale nell’interpretazione dell’economia politica classica, diventasse inoltre e prima di tutto “ciò che si è”, la trasformazione del mondo della vita in utilità per il sistema produttivo, ha causato danni notevoli, alla società, e all’intero sistema dell’istruzione pubblica, dalle elementari alle università.
Una riforma ambiziosa che guardi lontano, insomma...
Questo è il primo compito di ogni tentativo di riforma, anche nel XXI secolo, e ogni modello educativo deve seguire questo impulso: batterci per l’uguaglianza, che ci perviene dalla Costituzione, pena la perdita di senso della scolarizzazione. Ma la scuola è anche spazio agibile e agito, non semplici stanze. Lo spazio agibile e agito è anche il tempo vissuto nella scuola, tempo decisivo per il destino individuale e collettivo di una comunità, di una società. Spazio e tempo, uguaglianza e destino di intere generazioni: non è questa la sintesi da cui partire per introdurre finalmente una scuola che non lasci indietro nessuno? Non è da questi elementi che occorre riaprire il dibattito pubblico su qualunque riforma della scuola? Noi crediamo di sì. Se ciò vorrà dire ripensare strutturalmente i cicli scolastici, o l’età dell’obbligo, o i rapporti col mondo del lavoro, e con l’università, non ci si dovrà sottrarre al dibattito, con coraggio e determinazione.