Si accelera sul disegno di legge sul pre ruolo delle università e degli enti di ricerca
Presentati ulteriori emendamenti dal relatore del provvedimento: il commento della FLC CGIL.
La scorsa settimana il Ministero dell’Università e della Ricerca ha convocato le organizzazioni sindacali per un incontro informativo e un primo confronto sul DDL pre ruolo (DDL 2285, attualmente in sede redigente alla Commissione cultura, scienza e istruzione del Senato). Abbiamo avanzato pubblicamente, oltre che a Ministro e alla presidenza della Commissione, le nostre valutazioni e le nostre preoccupazioni su quel confronto, come sul possibile esito legislativo del provvedimento. Valutazioni e preoccupazioni, del resto, ben conosciute, perché da tempo espresse, anche nell’ambito di un’azione intersindacale.
Nei giorni immediatamente successivi il Relatore del provvedimento ha presentato un significativo corpo di emendamenti al testo, nell’ambito delle sue facoltà parlamentari. Appare quindi evidente il tentativo di individuare un punto di caduta e quindi di approvare il provvedimento nei tempi strettissimi rimanti, che tra le altre cose risulta esser inserito tra i molteplici obbiettivi del PNRR (in relazione ad una semplificazione del percorso di accesso ai ruoli universitari). Il problema è che questo testo valutato complessivamente, come abbiamo segnalato, rischia di non rispondere a nessuna delle esigenze oggi in campo (riduzione del periodi di immissione in ruolo, definizione di veri e propri rapporti di lavoro per tutti/e, sgonfiamento dell’attuale bolla di precariato). Gli emendamenti del relatore ci sembrano al momento confermare questo quadro, seppur inseriscono alcuni spiragli che però, per esser realmente tali, devono non solo consolidarsi ma anche intervenire sostanzialmente su altre parti del testo. Il rischio, infatti, è quello che in una cornice negativa l’insieme dell’assetto acquisisca una valenza per alcuni aspetti peggiorativa persino della già pessima legge attuale (la 240 del 2010).
Il primo emendamento del relatore (2.100), interviene sulle borse di ricerca, probabilmente l’aspetto più critico dell’intero provvedimento, senza però minimamente impattare su quell’impianto: un’attività di lavoro vero e proprio, sganciata da ogni percorso formativo e quindi impropriamente e incongruamente retribuita con una borsa, senza garanzie, contributi e tutele. Una borsa per di più prevista per un lungo periodo di tempo (36 mesi) e con un solo vincolo (l’esclusione per chi possiede un titolo di dottorato), che oltretutto appare difficilmente in grado di reggere alla prova dei fatti (si può essere esclusi a causa del possesso di un titolo di studio superiore?). In questo quadro l’emendamento in realtà peggiora le cose, esplicitando con chiarezza che questa borsa diventa una forma di lavoro a cui tutte le università possono ricorrere per qualunque attività di ricerca: scompare infatti l’attuale vincolo presente nella legge 240 (comma 5, lettera f dell’articolo 18), che richiama le borse di ricerca come una delle possibili forme di collaborazione ai gruppi di ricerca universitari, ma precisando che i finanziamenti devono esser esclusivamente esterni all’ateneo. L’emendamento infatti prevede che, per le università, le borse di ricerca possono esser finanziate da soggetti terzi, ma anche con fondi di ateneo, per quelli che rispettino i vincoli di bilancio sul personale (praticamente tutti gli atenei).
Il secondo emendamento (4.1) è la proposta migliore e più positiva che abbiamo sinora visto in questi lavori parlamentari, in grado (se approvata e se diventa l’unica figura pre ruolo presente) di portare ad un effettivo miglioramento delle attuali condizioni del precariato. L’eliminazione degli assegni di ricerca, una configurazione atipica di lavoro, unicum europeo, che retribuisce un lavoro a tempo determinato senza tutele e contributi propri dei rapporti di lavoro, viene finalmente cancellata e sostituita con veri e propri contratti di ricerca, con le relative tutele. Si prevede, in questo quadro, un significativo aumento della retribuzione annua lordo per finanziare questo nuovo status (dai circa 25mila euro degli attuali assegni di ricerca a quasi 37mila) e si definisce la durata minima del contratto in due anni, garantendo un minimo di stabilità nel rapporto di lavoro, evitando rinnovi annuali o periodi inferiori, oggi consentiti in alcuni casi. Rimane una collocazione atipica di queste figure (né nel CCNL né nei ruoli accademici), che ci auguriamo possa esser superata, ed una durata complessiva eccessiva (la possibilità del rinnovo biennale e del prolungamento di un ulteriore anno, sino a cinque), ma nel complesso risulta evidente il tentativo di riconoscere una giusta configurazione lavorativa all’attività di ricerca a tempo determinato nelle università e negli enti di ricerca. Per questi c’è un elemento negativo nell’impianto delineato, riguarda la previsione di una differenziazione dei requisiti di accesso tra i profili di ricercatore e tecnologo. Attualmente non ci sono differenziazioni tra il profilo ricercatore e tecnologo né per l’accesso né in termini di retribuzione né in termini di carriera, essendo inoltre anche prevista la possibilità di poter transitare tra un profilo e l’altro. Non è chiara, pertanto, la necessità di introdurre tale differenziazione nell’accesso, che di per sé creerebbe incoerenze senza portare alcun vantaggio.
Il terzo emendamento (5.100) interviene sul ricercatore universitario a tempo determinato in tenure. Rispetto ad alcune configurazioni delineate nell’incontro al Ministero, la sua articolazione ci pare sicuramente migliore: infatti la riduzione di un anno rispetto al testo uscito dalla Camera (da sette a sei anni di durata complessiva) non si definisce come un periodo secco di durata della tenure, “con eventuali anticipazioni se ci sono risorse di bilancio”, come ci era sembrato fosse stato delineato durante l’incontro al MUR, ma riprende la formulazione originaria, anticipando da sette a sei anni di durata complessiva, con valutazione dal terzo anno e ogni anno successivo nel caso che il titolare abbia conseguito l’ASN). Come abbiamo più volte segnalato tale formulazione presenta comunque delle ambiguità, in quanto non è chiaramente esplicitata la necessità di prevedere nella programmazione il passaggio a PA dal terzo anno e, per certi versi, l’emendamento ora proposto, rafforza tale ambiguità inserendo un ulteriore grado di incertezza per avviare il percorso (“su istanza dell'interessato”). Nel contesto del reclutamento universitario, dove l’elemento cardine è la programmazione della chiamata delle diverse posizioni, la domanda dell’interessato non è un elemento di garanzia (anzi, può diventare occasione di indebite pressioni), mentre lo è ogni automatismo che obbliga l’Ateneo a prevedere una valutazione nel caso di specifiche condizioni. Da questo punto di vista, crediamo che l’eliminazione di questo inciso, nel quadro di una programmazione degli enti pubblici che è obbligatoriamente triennale, rafforzata da un’opportuna interpretazione del testo di legge, possa rendere in realtà vincolante per gli atenei prevedere nella programmazione il possibile passaggio al terzo anno, di fronte all’eventualità di un obbligo di valutazione in quell’anno (e per ogni anno successivo sino al sesto) nel caso in cui il titolare sia in possesso di ASN.
Il quarto emendamento (5.0.100) inserisce la figura del tecnologo. È un passo in avanti importante e significativo, più volte richiesto dalla FLC CGIL, per offrire finalmente la necessaria qualificazione e retribuzione ad un’attività che viene attualmente prestata in molti atenei da personale precario o, ancora più spesso, tecnico amministrativo di fatto sotto-inquadrato (in alcuni pesantemente sotto-inquadrato, in posizioni che teoricamente non avrebbe neppure necessità di una laurea ma in mansioni che di fatto rendono indispensabile un dottorato). Importante anche, in questo quadro, che sia previsto un tempo transitorio congruo (36 mesi), per permettere attraverso una riserva di posti al 50% proprio il giusto inquadramento del personale che oggi ricopre quelle attività negli atenei. Crediamo infine che, se questa norma sarà approvata in tempi celeri, il contratto nazionale in fase di rinnovo possa e debba regolare con maggior dettaglio inquadramento, compiti e forme di passaggio a questa nuova figura, in relazione a quanto presente per l’analoga figura presente nel CCNL nella sezione ricerca.
L’emendamento successivo (6.100) interviene sugli Enti di ricerca. Questo articolo modifica la parte del testo che mette mano in modo importante sul ruolo e sul preruolo della figura del ricercatore e del tecnologo. In linea con quanto indicato per l’università per l’emendamento 5.100, l’attuale formulazione rappresenta un miglioramento rispetto alle precedenti versioni. L’obbligo di un contratto di durata pari a 6 anni per poter stipulare un tempo determinato in tenure salta, passando ad un contratto di durata triennale, dove dopo tre anni, previa valutazione, si ha l’immissione in ruolo al terzo livello. In linea con la posizione della nostra piattaforma contrattuale, il terzo livello in questo emendamento diventa di fatto un livello di transito, dove, dopo 3 anni di permanenza, previa valutazione positiva, si ha l’immissione in ruolo come primo ricercatore/primo tecnologo. Fermo restando che nell’ambito dell’attuale quadro contrattuale deve essere valutata come negativa qualsiasi differenziazione negli accessi tra ricercatori e tecnologi, l’elemento che riteniamo fortemente regressivo rispetto all’attuale disciplina dell’art.12bis del dlgs 218/16 qui abrogato è nella gestione complessiva delle figure preruolo. Attualmente, grazie al citato 12bis, ogni figura preruolo (td o assegni) può essere ricondotta in un percorso tenure. L’introduzione di una figura come il contratto di ricerca in sostituzione degli assegni, di per sé positiva, ma priva di alcun orizzonte di valorizzazione verso l’inquadramento nei ruoli rischia di creare una nuova bolla di precariato incontrollato come già visto nell’università e nella migliore delle ipotesi, allungare a dismisura la durata del periodo preruolo. Valutiamo come forte elemento negativo l’abrogare l’art.12bis del dlgs 218/16 senza mutuare il quadro di garanzie in esso contenuto. In primis quella di non creare precariato di serie A in tenure, supponiamo per pochi fortunati, e precariato di serie B, ma non solo. L’abrogazione della norma esclude poi da qualsiasi percorso che porti eventualmente all’immissione in ruolo il personale a termine impegnato nelle attività di ricerca che non sia ricercatore o tecnologo. Positivo il transitorio delineato per le figure preruolo in fase di superamento, ma la percentuale di riserva dei posti non è sufficiente rispetto al quadro attuale dei potenziali beneficiari.
L’ultimo emendamento (8.100), infine, si occupa delle norme transitorie, a garanzia dell’attuale precariato presente nelle università e negli enti. In particolare:
- si prevede positivamente di poter bandire posizioni da RTDb (secondo l’attuale art 24 della legge 240/2010) per i prossimi 12 mesi, al fine di non ostacolare l’attuale programmazione universitaria;
- si prevede, molto negativamente, di poter bandire posizioni da RTDa (secondo l’attuale art 24 della legge 240/2010) per i prossimi 36 mesi (tre anni!): cioè, per un lungo periodo, si prevede di mantenere in vita una figura precaria ed esaurita, che mentre nell’attuale configurazione normativa è pensato come percorso di passaggio per la tenure (con una riserva di posti per i concorsi a RTDb, ai quali si può appunto accedere solo se si è stati RTDa, assegnisti per più di tre anni o in possesso di ASN), nei prossimi tre anni si intreccerebbe impropriamente con il nuovo RTD tenure e con il contratto di ricerca, rischiando che le migliaia di persone assunte in questo ruolo (nell’ambito del PNRR e vincolati impropriamente nella loro attività, ingabbiate e vessate dalle attuali normative PON che abbiamo ripetutamente chiesto di superare) siano alla fine abbandonate ed espulse dal sistema universitario;
- si introduce positivamente una riserva di posti (per i prossimi 36 mesi) per gli attuali precari universitari (RTDa e assegnisti con almeno tre anni di attività), per concorsi da RTD tenure: un elemento tanto più positivo, quanto su questo elemento si era sinora incontrata una resistenza inspiegabile, per certi versi ideologica, che isolava l’università dal comportamento che era prassi e norma in tutto il resto della pubblica amministrazione (compreso gli Enti di Ricerca). Tale riserva di posti presenta però, in questa configurazione, caratteristiche tali da renderla non solo inefficace, ma persino illusoria: si prevede infatti che sia “non superiore al 15 per cento”. In primo luogo, è molto negativa la formulazione con un tetto massimo (ma non uno minimo) della riserva: non solo nella pratica tale riserva potrà esser pari a zero (e lo sarà obbligatoriamente in atenei piccoli), ma si conferma così un’inspiegabile discriminazione nei confronti del precariato universitario: la stessa legge sul preruolo, infatti, presenta diverse riserve di posti per lo stesso RTD tenure (minimo di un terzo per chi non ha avuto rapporti ha svolto corsi di dottorato o attività di ricerca in atenei diversi da quello che hanno emanato il bando; lo stesso emendamento 6.100 del Relatore, nella riformulazione dell’art 12-bis del DL n. 218/2016, prevede che gli Enti Pubblici di ricerca, per i 36 mesi successivi, riservino “una quota non inferiore al 25 per cento delle risorse” per titolari di contratti a tempo determinato, ovvero di assegni di ricerca o di contratti di ricerca, per almeno tre anni, anche non consecutivi, negli ultimi cinque anni”. Non si comprende quindi la ratio di una riserva di posti per il precariato universitario che non solo presenta una percentuale significativamente minore (in sostanza una posizione su sette, a fronte di una posizione su 3 o su 4 per le altre), ma soprattutto la definisce come tetto massimo (dando quindi la possibilità agli atenei di riservare meno posti o di non riservarne affatto), quando le altre sono giustamente definite come quota minima essenziale. Tale configurazione, pur aprendo uno spiraglio importante, rischia quindi di esser discriminante se non si interviene nei numeri e nella forma, armonizzando a minimo un terzo tutte queste quote.
- Le ultime due previsioni, infine, riguardano sempre l’attuale precariato, intervenendo giustamente e positivamente sul limite dei 12 anni e altrettanto positivamente prevedendo che assegnisti di ricerca con attività almeno triennale e RTDa vincitori di un concorso da RTD tenure possano esser inquadrati al terzo anno e quindi chiamati entro i 12 mesi successivi per la loro entrata in ruolo.
Le diverse norme di dettaglio, come abbiamo visto, presentano alcuni aspetti positivi e aprono alcuni spiragli importanti, sia in relazione ad una maggior tutela del lavoro (contratti di ricerca), sia in relazione alla salvaguardia dell’attuale precariato. L’assetto complessivo della legge, anche con l’approvazione di questi emendamenti, non risulta essere modificato e in particolare la presenza delle borse di ricerca, di contratti di ricerca lunghi, di un RTD della durata complessiva di sei anni, nel complesso rischia di aumentare e non di ridurre il lungo periodo di ingresso nei ruoli universitari (portando il limite dei 12 anni previsto nella legge 240 del 2010 a 14 anni di precariato). Inoltre, come già evidenziato, la presenza di una borsa di ricerca, poco tutelata e con retribuzioni assolutamente flessibili, attivabile da tutti gli atenei, a fronte di contratti di ricerca rigidi (biennali e con costi significativi), rischia di ridurre ai minimi termini proprio l’uso di questa nuova forma tutelata di rapporto di lavoro, diffondendo le borse di ricerca come forme privilegiate e usuali del precariato, peggiorando per di più la situazione rispetto gli attuali assegni di ricerca. Infine, la previsione di una riserva di posti come tetto massimo e con una percentuale minima, a fronte poi del PNRR (con le migliaia di posti a tempo determinato che vi sono previste) e del mantenimento per 36 mesi degli RTDa, rischia da una parte di non assorbire le migliaia di precari attuali, dall’altra di gonfiare una nuova bolla di precariato nei prossimi anni, senza alcuna tutela e garanzia per il loro percorso successivo (come pure esiste in altri ambiti della pubblica amministrazione, proprio per coloro che usufruiscono di contratti a tempo determinato su fondi PNRR).
Su questi elementi ci auguriamo ci sia un’opportuna riflessione nel percorso parlamentare, che nella discussione e nell’incrocio dei diversi emendamenti in esame, porti ad un risultato in grado di migliorare la situazione definita dalla legge 240 del 2010 e non di peggiorarla. Per questo obbiettivo, in raccordo con le altre organizzazioni sindacali e associazioni, continueremo con determinazione a lavorare.
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