27 gennaio. L’esercizio della memoria contro l’indifferenza
Per celebrare il Giorno della Memoria quest’anno diamo la parola alla poesia e all’arte.
Apriamo con un brano di Primo Levi tratto da La tregua, che con asciutta descrizione rende lo stupore dei primi soldati dell’Armata rossa che arrivarono ad Auschwitz, tra l’orrore e l’incredulità.
Proponiamo poi due poesie, una di Quasimodo che ricorda l’orrenda strage nazista di Marzabotto. L’altra venne rilanciata da Bertold Brecht ma deriva dal sermone antinazista di un pastore luterano che venne poi arrestato e deportato: è un inno contro l’indifferenza.
Infine ripubblichiamo ampi stralci di un’intervista a Moni Ovadia, pubblicata su “Articolo 33” n. 1/2009 sull’importanza della memoria, ma fuori da vuoti rituali. Un richiamo al senso civico e alla responsabilità di ognuno.
Auschwitz. La vergogna
“La prima pattuglia raggiunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero aia reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. [...] Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
(Da P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963)
Epigrafe per i caduti di Marzabotto
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesserling
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d’ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
(S. Quasimodo, da Il falso e vero verde, in Poesie e Discorsi sulla poesia, Mondadori, Milano, 1971)
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento,
perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi.
Ma poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente,
perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Memoria, democrazia e diritti umani. Intervista a Moni Ovadia di Dario Ricci (“Articolo 33”, n. 1/2009)
[…] Il problema della memoria pone molte urgenze, fra cui questa che è di certo la più immediata. O la memoria diventa strumento reale, bisogno prioritario, patrimonio condiviso delle generazioni future, oppure rischia di trasformarsi in vuota celebrazione e quindi di perdere forza, peso specifico, importanza.
Come evitare questo pericolo?
La celebrazione della memoria deve essere legata alla cultura della democrazia. Cioè deve essere strumento e conseguenza della costruzione di una democrazia vera. I principi di eguaglianza, solidarietà, diritti delle minoranze: sono queste le tematiche attuali in cui si concretizza il ricordo del dramma della Shoah.
Se questa memoria si trasforma invece in un rito vuoto, attraverso il quale politici spregiudicati si costruiscono artificiosamente una sorta di “verginità antirazzista”, allora sì che corriamo un rischio ancora più grave…
Quale?
Che tutto si trasformi in un flusso indifferenziato, in cui una cosa valga l’altra, i valori diventino intercambiabili e indistinti. Ricordare per costruire una società democratica e solidale: questo deve essere l’obiettivo, e anche il senso ultimo della memoria. Oggi i segnali mi pare che invece vadano in tutt’altra direzione…
Si spieghi meglio.
Ormai sempre più frequentemente si assiste alla scena del politico di turno che, indossato il tradizionale copricapo ebraico, va a far visita a un lager o al Yad Vashem di Gerusalemme e mette in mostra tutta la sua costernazione per l’immane tragedia vissuta dal popolo ebraico. Poi, una volta tornato in patria, non esita a prendere misure vessatorie nei confronti delle minoranze. Si tratti di rom, omosessuali, o ad avere un atteggiamento repressivo nei confronti degli extracomunitari. Guai a noi se questa diventasse un’abitudine.
[…]
Ritengo che uno dei maggiori pericoli per la memoria della Shoah sia, ad esempio, la sua israelizzazione. È quel fenomeno che si manifesta quando un politico, ad esempio del nostro centro-destra, che affonda le sue radici politiche nella pesante eredità fascista, va ad Auschwitz e dice: “Io mi senti israeliano”. Mi chiedo che senso abbia tutto questo. È chiaro che Israele porta una parte decisiva della memoria dello sterminio, ma non è un diritto né una parte esclusiva, perché quella tragedia è una memoria universale e condivisa. Perché non dire invece: “Io mi sento ebreo, rom, omossessuale, mi sento come ognuna delle minoranze sterminate qui”? Il suo è un modo subdolo di spostare il tiro, di staccare l’evento Shoah dal suo senso profondo, di rompere il nesso tra la tragedia e le responsabilità del nazifascismo. […]
Torniamo a un problema di ordine estetico. Cioè a una memoria che cambia la sua forma per perpetuarsi, ma che vede così cambiare anche i suoi significati profondi.
Pensi ad esempio a cosa accade con la commercializzazione della Shoah, con lo sterminio che diventa genere letterario, filone narrativo, maniera di raccontare. È un altro rischio che stiamo correndo. Ogni volta che la memoria viene isolata dal contesto attuale, ne diminuiamo la portata e il valore. Che senso ha perpetuare il ricordo di ciò che è stato e dare per scontata, ad esempio, l’equazione “clandestino uguale criminale, uguale essere subumano”? Attenzione, perché queste sono modalità di pensiero tipicamente nazifasciste.
Oggi ci stiamo confrontando con un forte rigurgito negazionista. L’arma per sconfiggerlo saranno ancora le memorie dei sopravvissuti o tentare di comprendere, analizzare e smontare le logiche che sono state alla base del totalitarismo nazifascista?
Non potremo sconfiggere il negazionismo e il revisionismo strumentale con la sola condanna. […] Se sapremo costruire una società effettivamente fondata sulla Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, il rifiuto del negazionismo sarà un fatto naturale e consapevole. […]
Come raccontare tutto questo ai giovani?
Vado spesso nelle scuole e ho messo a punto un piccolo gioco che faccio con gli studenti. Provo a fargli immaginare la loro stessa vita senza memoria: una vita che diventerebbe immediatamente condizionabile, manipolabile, gestibile da altri, proprio perché è dalle esperienze fatte che ognuno di noi impara comportamenti, modalità d’azione e d’intervento. “Pensate cosa accadrebbe - dico ai ragazzi - se non solo un individuo ma un’intera società venisse privata della memoria”.
Funziona?
I ragazzi capiscono al volo che, a quel punto, la memoria è uno strumento; è un mezzo per decidere cosa fare, per scegliere in che campo stare, quale futuro costruire. Mi creda, incontro molti giovani intellettualmente vivi, capaci di un grande senso critico. Forse non sanno quello che vogliono, ma sanno come interrogarsi per cercare le risposte giuste. E sanno rifiutare l’egemonia della cultura della maggioranza in nome del valore della diversità. Mi sembra un ottimo punto di partenza.
Crede che la memoria dello sterminio potrà essere perpetuata anche attraverso l’ironia, il riso?
Credo proprio di sì. L’ironia è uno strumento corrosivo essenziale per evidenziare i risibili paradossi del totalitarismo. Non a caso ho costruito un piccolo culto laico dell’umorismo, soprattutto quello autodelatorio. Come non ridere dell’ottusità e della stupidità del nazifascismo, del suo totale distacco dalla vita reale? Razzismo e totalitarismo si basano su una grande truffa, cioè sulla pretesa superiorità di alcuni su altri, a partire dal colore della pelle, dalla religione, o da cose simili…: non le sembra una cosa che, solo a dirla così, fa sbudellare dalle risate?