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Nelle righe del rapporto ANVUR 2023

La nuova emergenza universitaria, gli effetti della stabilizzazione e il congelamento degli enti pubblici di ricerca, il consolidamento AFAM.

28/06/2023
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Nei giorni scorsi è stato pubblicato dall’ANVUR il nuovo rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca. Il rapporto avrebbe dovuto essere biennale, ma non veniva pubblicato dal 2018. L’ANVUR ha infatti scelto di attendere la conclusione della pandemia covid-19, per offrire una panoramica del sistema a valle delle trasformazioni di questi anni.

UNIVERSITÀ AFAM RICERCA

In primo luogo, una distorsione percettiva.

Il documento analizza in realtà i cambiamenti del sistema negli ultimi dieci anni. Tale scelta, nel solco dei rapporti precedenti, a 5 anni di distanza dal rapporto 2018 rischia però di determinare una distorsione percettiva. Il sistema italiano della formazione superiore e della ricerca [come lo indica più compiutamente l’ultimo rapporto], infatti, ha subito una rilevante contrazione a partire dalla Grande Recessione del 2009/08, sia nelle risorse sia nel suo perimetro complessivo (in particolare nelle università, in termini di studenti, dottorandi, organici e strutture). Come ricorda Marino Regini (2022, p. 25), come abbiamo ricordato in molti documenti FLC [ad esempio, Oltre l’emergenza, 2020] abbiamo assistito a un fenomeno di decrescita-disinvestimento, proprio nel periodo in cui la maggior parte dei Paesi europei aumentava il proprio investimento nell’istruzione superiore e nella ricerca come strumento per contrastare la recessione stessa. Quella scelta strategica, che ha avuto profonde conseguenze di carattere sociale ed economico, pesa ancora sull’insieme dell’istruzione terziaria, la ricerca e sviluppo, il mercato del lavoro, il sistema produttivo e in fondo lo stesso tessuto del paese. Portare fuori dal perimetro di osservazione quel particolare passaggio, allora, rischia non solo di non dare pienamente conto delle attuali criticità, ma modifica la stessa percezione di quello che è avvenuto. I tagli più consistenti alle risorse e al personale riguardano infatti proprio i 4/5 anni che intercorrono tra la recessione del 2009 e quella del 2012, prima dell’anno accademico preso a riferimento dal rapporto. Per esempio, nel periodo 2008-2011 per quanto riguarda le università (vedi il documento FLC La nuova emergenza, maggio 2023), il Fondo di Funzionamento Ordinario era sceso in termini nominali di quasi il 4% (da 7,391 mld di euro, al suo picco del 2009, a 7,118 mld di euro), in termini reali di ben l’11% (da 6,164 a 5,489 mld di euro, a valori costanti del 2000); gli immatricolati erano calati del 6,3% (da 307.586 a 288.254, tornando per la prima volta sotto i 300mila dall’avvio del 3+2 nel 1999); il personale docente e ricercatore era diminuito del 9% (da un organico di 63.730 ad uno di 58.210 unità), come per il personale TAB (da 64.633 a 59.257 unità). Ogni considerazione quindi sull’attuale ripresa va quindi valutata alla luce anche della prima grande stagione di tagli alla spesa del sistema universitario e della ricerca. Tenendo in considerazione che nel 2022 (ultimo anno oggetto del rapporto), diversi di questi valori sono ancora inferiori a quelli 2008.

UNIVERSITÀ

Gli studenti: un recupero ancora gravemente insufficiente rispetto gli obbiettivi di Lisbona

Il rapporto mostra una leggera ripresa di immatricolati e iscritti alle università negli ultimi anni: gli studenti iscritti ai corsi di laurea sono tornati ad esser poco più di 1,8 mln, gli iscritti complessivi nelle università (comprensivi del post-lauream) oltre 1,9 mln, gli immatricolati ben oltre i 300mila. Nella sostanza, sono i numeri dei primi anni duemila, ai quali si è tornati con la pandemia. Lo stesso Rapporto ANVUR ricorda, ed evidenzia, la distanza rispetto al resto dei paesi europei per quanto riguarda il numero di iscritti e quindi di laureati: siamo sotto di oltre 20 punti percentuali rispetto la media OCSE, esattamente come 20 anni fa, perché nonostante la riduzione di abbandoni, nella fascia 25-34 anni di età sono solo il 28%, a fronte di oltre il 48% negli altri paesi con economie sviluppate e del 40% come obbiettivo che anche l’Italia si era data a Lisbona per il 2020 (poi aggiornato al 45%).

Come ricorda il rapporto ANVUR, l’aumento degli immatricolati negli ultimi anni è parallelo ad un significativo aumento dei diplomati (+14% dal 2012, con una crescita di oltre 63mila maturati, da 445.378 a 508.474), nonostante un numero annuo di 19enni stabilizzatosi negli anni duemila intorno ai 500mila, dopo un consistente calo dagli anni ottanta. Il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università è rimasto comunque fermo per tutto il decennio: secondo i dati ANVUR intorno al 60%, in parte diversi dai dati ISTAT che comunque anch’essi segnalano l’attuale stabilità dopo il calo dei primi anni duemila (vedi La nuova emergenza). In ogni caso questo tasso di passaggio è ancora troppo limitato, a partire dall’iscrizione all’università del solo 76% dei diplomati liceali. Rimangono forti diversificazioni tra tipologie di scuole, che rendono evidente non solo la permanenza di stratificazione di classe nei percorsi di alta formazione, ma anche della presenza di una vera e propria soglia di accesso all’università. Questo dato, infatti, si intreccia inevitabilmente con l’alto costo degli studi universitari in Italia. Nonostante l’aumento significativo degli studenti e delle studentesse esonerate dal pagamento di tasse e contributi (grazie sostanzialmente all’incremento della cosiddetta no-tax area con la legge di bilancio 2018), passati da circa 170mila nel 2015 a 550mila nel 2021 (34,3% degli iscritti), le risorse studentesche immesse nel sistema sono ancora 1,49 mld di euro (solo 50 mln di euro in meno del 2015!), ancora il 13% dei bilanci degli atenei. Questa sostanziale invarianza delle tasse studentesche nel sistema è stata possibile per l’aumento della singola contribuzione media (al netto dei non paganti), oltre il 25% in solo sei anni (dai 1.134 euro del 2015 ai 1.421 del 2021, dai 1.068 euro delle isole ai 1.626 del Nord-ovest). Questa è una delle più alte tassazioni universitarie in Europa (insieme a Spagna e Paesi Bassi), ma senza una simile politica di diritto allo studio (che da noi copre a malapena il 12% degli iscritti), con una grave insufficienza di residenze (come emerso anche sulle pagine dei giornali per le proteste studentesche, un dato comunque ricordato nel rapporto e sottolineata da La nuova emergenza). Questa soglia, comunque, deve esser tenuta in considerazione insieme ai tassi di abbandono, giustamente messi in risalto dal rapporto ANVUR: nell’ultimo decennio sono calati (effetto della cosiddetta riforma del 3e2 del 2005); ma con la pandemia sono risaliti oltre il 14,5% al primo anno, oltre al 20% nel complesso. Come segnalano Regini e Ghio (2022), è certamente un problema di servizi universitari, orientamento in itinere, tutor e politiche di ascolto di studenti e studentesse. Negli ultimi anni le loro associazioni hanno sottolineato la necessità di servizi psicologici, anche per la percezione di una crescente pressione competitiva moltiplicata dai cadenzamenti dell’attuale percorso di studio. È importante però considerare anche che nell’università italiana il rapporto studenti/docenti è molto alto: secondo Education at Glance 2022 intorno a 20,3, quasi doppio a quello di Germania (12) e Spagna (12,3), comunque molto superiore a Portogallo (14,3), Regno Unito (15,4) e Francia (16,8). Un rapporto che nelle università pubbliche è simile per il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario. Intercettare le difficoltà quando si interagisce con centinaia di studenti e studentesse risulta spesso impossibile: un’università piccola in risorse e personale non può che generare abbandoni di questa portata.

Infine, nel progressivo aumento di studenti e studentesse saltano agli occhi due elementi: la distribuzione è fortemente differenziata per territori e di fatto la crescita è a vantaggio delle università telematiche. In primo luogo, infatti, gli atenei del sud e quelli delle isole perdono comunque il 17% degli iscritti: un risultato non casuale delle politiche di investimento in risorse economiche e personale, che nell’ultimo decennio attraverso l’utilizzo di parametri valutativi (spesso discutibili, vedi i molteplici interventi di ROARS) hanno fortemente avvantaggiato alcuni atenei e territori, come abbiamo evidenziato in questi anni (ad esempio, con i documenti Divergenze di sistema, 2019; Oltre l’emergenza, 2020; La nuova emergenza, 2023). In secondo luogo, assistiamo ad un vero exploit degli iscritti alle università telematiche [su cui a breve faremo uno specifico approfondimento]: qui vogliamo solo sottolineare, come indica il rapporto ANVUR, che gli iscritti a questa tipologia di università rappresentano oggi l’11,5% del totale (oltre 180mila): mentre erano solo il 2,5% dieci anni prima (intorno ai 40mila). Il rapporto ANVUR ricorda come la percentuale di laureati delle telematiche con una età superiore a 31 anni sia del 45%, mentre la percentuale per le università tradizionale è del 4%. Inoltre, il 45% degli studenti delle telematiche ha una precedente carriera in un ateneo tradizionale. Una parte dell’abbandono viene quindi intercettato da loro, un fenomeno da analizzare a nostro parere con attenzione, con particolare riguardo anche alla qualità del sistema come evidenziato anche da inchieste giornalistiche che hanno coinvolto qualche ateneo telematico. La loro crescita, però, è ultimamente avvenuta anche nelle immatricolazioni: come abbiamo recentemente ricordato (La nuova emergenza, 2023) gli ultimi due anni accademici sono stati segnati da una perdita di oltre 5mila immatricolati dalle università in presenza, a fronte di una crescita della stessa entità delle matricole agli atenei telematici.

In conclusione, pochi studenti nel confronto con i paesi europei e un aumento assolutamente non sufficiente e tutto a carico delle telematiche, tanta emigrazione interna (dal sud e dalle isole) e troppi abbandoni.

Il calo mai recuperato del personale, il significativo cambio della sua composizione.

Il rapporto ANVUR segnala una significativa ripresa del personale docente e ricercatore dal 2012 al 2022: l’organico di ruolo complessivo passa da 57.305 a 61.099 unità (+6,6%). Questi dati, però, come abbiamo visto in premessa fotografano solo una parte della realtà. L’organico del 2008 (63.730 unità) nel 2022 non era ancora stato raggiunto. Comunque, anche restando nello schema di un calo nel primo quinquennio e di una ripresa nel secondo quinquennio, alcuni elementi sono da evidenziare. I numeri del 2008 (e del 2012) e quelli del 2022 prendono in considerazione entità strutturalmente diverse. Nel 2008 il personale di ruolo era ancora sostanzialmente tutto a tempo indeterminato: c’erano infatti allora solo 456 Ricercatori a Tempo Determinato e 14 straordinari (legge 230/2005), mentre erano stabilmente assunti gli oltre 18.900 professori ordinari, gli oltre 18.200 professori associati, gli oltre 25.500 ricercatori universitari e i meno di 500 assistenti e incaricati. Nel 2012, era ancora in larghissima parte a tempo indeterminato: 54.929 unità (14.521 PO, 16.146 PA, 24.262 RTI), con solo il 4,1% a tempo determinato (2.356 RTD, più o meno la metà legge 230/2005 e la metà Rtd-a, cioè ricercatori a progetto senza punti organico). Nel 2022 invece, i dati ANVUR segnalano che il personale di ruolo a tempo indeterminato è in realtà solo di 54.256 unità: 15.687 ordinari, 26.599 associati, 5.319 ricercatori a tempo indeterminato e 6.651 Rtd-b (cioè, ricercatori in tenure track con punti organico). Il personale precario, gli RTD-a, nel 2022 sono ben l’11,2% di tutto il personale di ruolo. Cioè, alla fine del decennio il personale a tempo indeterminato, con punti organico, è quasi quello del 2012 (ma non ancora), inferiore di quasi il 15% rispetto a quello del 2008. La composizione del personale docente e ricercatore (a cui si aggiungono circa 15mila assegni di ricerca, personale in co.co.co retribuito con una borsa) è, cioè, profondamente cambiata, con lo sviluppo di un sistema di precarizzazione fortemente strutturato, quello sì, nel sistema. Il rapporto ANVUR non a caso riporta come l’età media per un ricercatore a tempo determinato di tipo b, prima figura che possiamo considerare strutturata, sia di 41 anni (per altro cresciuta nel decennio). Qui si evidenzia tutta la straordinaria drammaticità del precariato universitario: tra i 26/27 anni del conseguimento del titolo di dottorato e i più di 40 anni per l’accesso a una figura stabile, per i pochi che ce la fanno, c’è in mezzo tutta l’ingiustizia possibile. Il dato della sperequazione di genere, con piccoli avanzamenti largamente insufficienti, ci consegna poi una realtà amara e poco corrispondente alle capacità di ricercatrici e professoresse. Un quadro non modificato dalla risposta dello scorso anno (il DL 36/2022, convertito con la legge 79/2022, in cui è presente la cosiddetta revisione del preruolo previsto dalla legge 240/2010), che mantiene, come abbiamo sottolineato, un lungo periodo di ingresso ai ruoli, pur sostituendo positivamente l’assegno con il contratto di ricerca e assorbendo il RTD-a nel percorso di tenure track [revisioni però per ora sostanzialmente congelate dalla proroga sia del RTD-a, sia dell’assegno di ricerca].

Questo calo e questo cambio di composizione del personale ha riguardato, in forma più accentuata, il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario. Il dato del 2022 (55.016 unità, di cui 47.449 nelle università statali), in questo caso, è infatti molto inferiore sia a quello del 2008 (64.633 unità solo nelle statali), sia a quello del 2012 (59.379, di cui 52.428 nelle statali). Siamo, cioè, di fronte ad un calo continuativo, di oltre il 10% tra il 2008 ed il 2011, di altrettanto tra 2012 e 2022 (per un totale di oltre 17mila unità, quasi un quarto del totale). Una contrazione radicale che non troverà comunque ristoro nell’introduzione, nell’ultimo piano straordinario dell’università anche del personale TAB: in primo luogo, per le risorse limitate (si stima al massimo 4/5.000 assunzioni), comunque tutte da verificare sia per la reale distribuzione dei punti organico nei diversi atenei, sia per gli altri ostacoli presenti nel sistema (la crescita dei costi di personale per i rinnovi contrattuali, il tetto del salario accessorio, ecc). A questo calo drammatico degli organici corrisponde, mai evidenziata da nessuna analisi, un diffuso processo di esternalizzazione delle funzioni e del personale, attraverso appalti e servizi (come portinerie, biblioteche, servizi informatici o amministrativi), sospinto anche dalle limitazioni per le spese di personale previste dal DL 49/2012 (e dall’assenza di vincoli), anche con un aumento dei costi e in ogni caso una diminuzione di tutele e retribuzioni. Il calo, come per gli altri indicatori, non è omogeneo per atenei e territori, generando squilibri. Accanto al dato della diminuzione degli addetti, inoltre, si è assistito al fenomeno del sotto inquadramento e dal blocco delle carriere, anch’esso mai analizzato dall’ANVUR. Un fenomeno determinato da norme punitive nei confronti del personale pubblico, nella cui applicazione il legislatore si è particolarmente accanito nelle università.

In generale le politiche di definizione dell’allocazione delle risorse economiche, tenendo come parametro da premiare quello della diminuzione della spesa per il personale, hanno generato e determinato politiche di riduzione degli organici, mai recuperate per il personale TAB e comunque ancora presenti per quello docente e ricercatore a tempo indeterminato, in parte sopperite con lo sviluppo di una precarizzazione strutturale ed un’esternalizzazione di servizi.

Alla base di tutto, la contrazione reale nelle risorse economiche.

Il rapporto ANVUR evidenzia la crescita del Fondo di Finanziamento Ordinario dopo il 2016, con una sua espansione nel 2022 (8,65 mld di €), del 18,2% rispetto al 2012/2013 (rispettivamente 7,32 e 6,95 mld di €). Anche qui, pesa l’errore di prospettiva (il FFO più alto fu quello del 2009, con 7,39 mld di €), ed anche una mancata parametrazione delle risorse nominali a quelle reali. Se si tiene infatti in conto l’inflazione, come abbiamo sottolineato in La nuova emergenza (2023), il FFO si è effettivamente contratto dopo il 2010 di oltre un miliardo di euro (con un punto basso negativo nel 2013 e una ripresa solo dal 2016), ma nel 2022 gli 8,65 mld di euro nominali erano pari a poco più di 6 mld di euro reali (valori del 2.000), ancora leggermente sotto rispetto i valori del 2007/08. Un dato in realtà registrato dallo stesso rapporto, anche se sottovoce (in una nota a più di pagina). Di più, proprio per la ripresa dell’inflazione il valore reale del Fondo di Finanziamento Ordinario nel 2022 conosceva una nuova leggera contrazione, di circa 100 mln di euro (sempre secondo i valori del 2000). Le risorse, cioè, continuano ad essere largamente insufficienti, anche solo per il reale funzionamento ordinario degli atenei (come ricordato da CRUI e CUN nella loro valutazione del FFO 2023, approvate nei giorni scorsi, che sottolineano proprio il peso dell’inflazione e l’aumento dei costi del personale per i rinnovi contrattuali e i relativi adeguamenti ISTAT).

Come sottolinea il rapporto nel suo capitolo conclusivo, il paese investe in università e ricerca solo lo 0,9% del PIL, addirittura peggiorando il livello del 2012 che era dello 0,94%, rispetto ad una media OCSE dell’1,40%. Basti considerare che in Italia la spesa complessiva per studente è stata pari a $ 12.177, in leggero aumento rispetto ai $ 10.699 del 2012, ma nettamente al di sotto del livello medio OCSE ($ 17.559) e, soprattutto, di quello dei principali Paesi europei, guidati dal Regno Unito con $ 29.688 a studente, se­guito da Germania ($ 19.608), Francia ($ 18.136) e Spagna ($ 14.237). In questa quota, la spesa pubblica è comunque preponderante (0,55% del PIL), nonostante sia molto inferire alla media OCSE (0,93%), con una spesa per famiglie in crescita (0,33%) e una spesa di investitori privati sostanzialmente nulla. Un dato che si riflette anche nella scarsa spesa complessiva del paese sulla Ricerca (nel quadro di un modello economico e industriale a basso sviluppo, come sottolinea Regini, 2022), pari all’1,47% del PIL, a fronte della media del 2,13% per l’OCSE e dell’2,54% per la UE.

Il rapporto ANVUR sottolinea poi con particolare forza i cambiamenti nella composizione del Fondo di Finanziamento Ordinario. Se le parole hanno un senso, questi sono i trasferimenti pubblici che dovrebbero garantire agli atenei le risorse per, appunto, farli funzionare. Nel corso dell’ultimo decennio, con l’entrata a regime della Legge 240/2010 (la cosiddetta Gelmini) e del DL 49/2012, la quota base del FFO è progressivamente calata, passando da oltre l’80% a meno del 50% (nel 2022, solo 4,2 mld di €, tra l’altro con una parte consistente definita attraverso il parametro del costo standard): a crescere solo gli interventi premiali (2,36 mld di €) e quelli finalizzati (praticamente 2 mld di €), cioè soprattutto dipartimenti di eccellenza e piani straordinari, che usano criteri premiali nella loro distribuzione. Di particolare interesse appare proprio l’aumento delle risorse destinato ai piani straordinari di reclutamento, che però per il momento non determinano un corrispondente aumento di personale per il parziale mancato utilizzo delle risorse ordinarie per il normale turn over. Come anche evidenziato recentemente dal CUN ci si trova al paradosso di un mancato utilizzo della possibilità di sostituire interamente il personale che va in pensione per non alzare le spese complessive di personale, parametro che incide sulle risorse premiali, e per garantire il normale funzionamento degli Atenei. A questo proposito basta notare che, pur aumentando le risorse espressamente finalizzate all’assunzione di personale, il costo per tale voce diminuisce. La distribuzione del FFO su base territoriale si modifica ma a questo proposito appare molto più interessante il dato che abbiamo presentato come FLC delle variazioni ateneo per ateneo (richiamata in La nuova emergenza, 2023).

AFAM

Per la prima volta il rapporto ANVUR dedica un’ampia sezione all’alta formazione artistica e musicale. Si tratta del segno evidente di un settore in forte espansione che ha vissuto negli ultimi anni processi di trasformazione significativa in termini quantitativi (numero delle istituzioni, degli addetti, degli studenti e ammontare delle risorse) e in termini qualitativi con il definitivo passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento che prevede diplomi accademici di I e II livello o diplomi accademici a ciclo unico.

Studenti.

Innanzitutto, gli iscritti all’intero settore AFAM (statale e non statale) passano da 41.696 dell’a.a. 2011/12 agli 82.710 dell’a.a. 2021/22. Identico trend riguarda il numero degli immatricolati che passano da 11.935 dell’a.a. 2011/12 a 20.417 dell’a.a. 2021/22.
Da notare che l’aumento complessivo del numero degli studenti è la sintesi di un dato che anche a livello territoriale ha registrato ovunque variazioni positive, con un maggiore incremento nelle regioni del Nord e del Centro rispetto a quelle del Mezzogiorno.
Particolarmente significativo è l’incremento nel settore delle Accademie di belle arti che si concentra principalmente nel Dipartimento di Progettazione e arti applicate ed in particolare in Design (Product design, Interior design), Design della moda (Fashion design, Fashion stylist) e Design della comunicazione visiva (Graphic design, Comunicazione pubblicitaria).
La quota di studenti stranieri che frequentano i corsi accademici AFAM (15,1% nel 2021/2022 nei corsi di I e II livello) risulta molto alta, in particolare nelle Accademie di belle arti statali e legalmente riconosciute (18,9% e 20,4%), seguite dai Conservatori di musica (11,8%) e dalle istituzioni private autorizzate al rilascio di titoli AFAM (11,5%). La quota di studenti stranieri risulta molto più elevata nei corsi di II livello rispetto ai corsi di I livello. Per quanto riguarda il Paese di provenienza degli studenti stranieri si conferma che più della metà è di nazionalità cinese (54,2% nei corsi di I livello, 70,3% in quelli di II livello). Nei corsi di II livello è da segnalare che, nel settore musicale, alla cospicua quota di studenti di nazionalità cinese si aggiunge una quota consistente di studenti sudcoreani.

Istituzioni.

In questi ultimi anni abbiamo assistito sia ad un forte incremento delle istituzioni non statali che a processi di statizzazione di 5 accademie di belle arti cosiddette storiche e di 17 istituti superiori di studi musicali (ex istituti musicali pareggiati).

Complessivamente risultano funzionanti 71 Conservatori statali (a cui si aggiungono 4 sedi staccate), 1 politecnico statale (che riunisce Accademia e Conservatorio di Bergamo), 24 Accademie di Belle arti statali, 2 Accademie Nazionali (di danza e di arte drammatica), 5 ISIA statali, l’Istituto musicale pareggiato della Valle d’Aosta/Conservatoire de la Vallée d’Aoste (promosso dalla Regione autonoma), 47 istituti afam privati alcuni dei quali dotati di sedi decentrate.

I processi in atto nell’AFAM statale.

Con particolare riferimento all’afam statale abbiamo assistito

  • a un forte processo di ampliamento del perimetro pubblico attraverso la statizzazione di 22 istituzioni non statali per i quali sono stati stanziati 55 milioni di euro
  • ad un ampliamento delle dotazioni organiche con un finanziamento di 70 milioni di euro a decorrere dal 2022. A questo dato si sono aggiunti ulteriori ampliamenti determinati da risparmi che stanno comportando, ad esempio, l’istituzione di una dotazione organica significativa del personale docente degli ISIA, in precedenza quasi del tutto inesistente
  • a robusti processi di stabilizzazione del personale precario.

Riguardo alle dotazioni organiche (ricordiamo che nell’afam tutto il personale è contrattualizzato) si è passati

  • da 6783 posti docenti del 2011/12 a 8392 posti relativi all’a.a. 2022/23
  • da 1988 posti del personale TA del 2011/12 a 2854 posti relativi al 2022/23

Da segnalare che sono stati stanziati già dal 2022 altri 19,5 milioni di euro anni per la istituzione di nuove figure di supporto alla didattica, alla produzione e alla ricerca che comporterà a conclusione della tornata contrattuale 2019/21, l’attivazione di procedure di reclutamento e quindi un ulteriore incremento delle dotazioni organiche.

Nonostante questi dati, l’ANVUR sottolinea come sia ancora presente un numero assai rilevante di contratti atipici del personale docente che garantisce l’erogazione dell’ordinaria offerta formativa in relazione all’ampliamento degli iscritti.

La mancanza di un Regolamento sul Reclutamento ha favorito in questi 23 anni che ci separano dall’entrata in vigore della Legge 508/99, la crescita di un esteso precariato sia con contratti subordinati che con altre tipologie di contratti (cococo, partite IVA, prestazioni occasionali, ecc.).

A partire dal 2018 sono stati avviati consistenti processi di stabilizzazione del personale docente che ha comportato la costituzione e il loro quasi completo esaurimento, di tre graduatorie nazionali istituite una tantum da varie leggi. In particolare, sono stati stabilizzati oltre 2450 docenti a cui aggiungere oltre 540 del personale TA per un totale di 3000 stabilizzazioni: un numero davvero importante per questo settore.

Da aggiungere infine che da maggio 2021 tutti i circa 700 docenti di II fascia sono transitati in I fascia, con il pieno riconoscimento del servizio pregresso ai fini della ricostruzione della carriera.

Per comprendere l’impatto di quanto avvenuto negli ultimi anni, è significativo constatare che per l’alta formazione artistica musicale la posta nel bilancio ministeriale passa da circa 434 milioni di euro del 2012 a quasi 645 milioni di euro nel 2023.

Luci ed ombre.

Non mancano naturalmente le ombre. Il tema più controverso è in particolare il modello di autonomia che si intende disegnare per queste istituzioni. Non a caso nel documento, in riferimento all’adozione dei principali

regolamenti di governo, gestione e valutazione delle istituzioni si propone di giungere alla definizione, in analogia al modello universitario, di linee di indirizzo e obiettivi triennali di sistema, entro i quali gestire in modo coordinato lo sviluppo del comparto AFAM. È chiaro che per la FLC CGIL l’autonomia delle istituzioni deve essere intesa come strumento di autogoverno democratico dell’esercizio della libertà di insegnamento e di ricerca e non la scorciatoia per realizzare autonomie differenziate e autoreferenziali fonte di conflittualità, disparità e diseguaglianze.

AFAM non statale.

Riguardo, infine, alle istituzioni non statali che hanno contribuito in maniera significativa all’ampliamento del settore AFAM, alla luce della tipologia di personale impiegato e ai contratti applicati, appare non più rinviabile la scelta di utilizzare anche per tali istituzioni il medesimo trattamento economico e giuridico del personale statale quale requisito inderogabile per l’accreditamento.

ENTI PUBBLICI DI RICERCA (solo vigilati MUR)

Il rapporto ANVUR tiene in considerazione solo gli Enti di Ricerca vigilati dal MUR. L’assenza di una politica e di un effettivo coordinamento dell’insieme degli Enti di Ricerca pubblici del paese è uno degli elementi di critica che da tempo avanziamo come organizzazione sindacale, perché si produce inevitabilmente una compartimentazione ed una frammentazione degli indirizzi e delle gestioni tra i diversi settori, rendendo complesso lo sviluppo delle necessarie sinergie di sistema. Una critica che attiene alla governance di sistema (l’assenza di una reale agenzia o struttura di coordinamento), ai fondi ed alle risorse, che oggi arriva al parossismo di prevedere risorse per il rinnovo contrattuale dei dipendenti solo per una parte degli enti di ricerca, scorporando gli enti non vigilati MUR (tra cui realtà importanti, anche numericamente, come ISTAT, ISS, ISPRA, ENEA, ecc). Una scelta irresponsabile, che sta di fatto ostacolando il rinnovo di tutto il CCNL Istruzione e Ricerca, rispetto alla quale ci stiamo impegnando proprio come FLC per una sua soluzione. Un sistema di sorveglianza e valutazione solo per una parte degli enti di ricerca, come quella portata avanti dal rapporto, risulta quindi in primo luogo monca di una realtà ben più ampia e popolata. Questo, al netto di tutti i problemi di prospettiva indicata in generale nella premessa del documento.

Un personale congelato, se non per la stabilizzazione del precariato.

Il personale degli enti pubblici di Ricerca vigilati dal MUR, in questo decennio, contrariamente all’università, non si è contratto: i numeri totali, infatti, hanno conosciuto una leggera variazione (13.113 unità nel 2012, un picco di 15.162 nel 2018, 14.402 nel 2022). In realtà, se si scompone il dato tra le due principali componenti, ricercatori/tecnologi e tecnici/amministrativi, possiamo notare come questi ultimi siano sostanzialmente statici (da 5.602 a 5.557), mentre i primi hanno visto una certa espansione (da 7.512 a 8.945, +1.433, circa il 19% dell’organico). La crescita del personale R&T, oltre il finanziamento speciale finalizzato all’assunzione di giovani ricercatori del triennio 2016/2018, è in realtà spiegata da una dinamica molto significativa: il personale a tempo indeterminato passa da 11.325 unità (6.515 ricercatori e tecnologi; 4.810 tecnici e amministrativi) a 14.171 unità (8.654 ricercatori e tecnologi, 5.517 tecnici e amministrativi), mentre i precari (contratti a tempo determinato) passano da 1.729 unità (998 R&T; 791 T&A) a 715 (281 R&T; 424 T&A). In pratica, si riducono di oltre la metà i contratti a tempo determinato, portando la loro incidenza complessiva dal 13,3% al 3,1% per Ricercatori e Tecnologi, dal 14,1% al 7,8% per i tecnici amministrativi. Questa dinamica si impone dopo il 2018, per l’approvazione del DLgs 75/2017 (la cosiddetta Madia), che ha portato alle stabilizzazioni di migliaia di precari, anche con tre anni di assegno di ricerca (nel quadro di un blocco complessivo del turn-over). Il processo è durato fino al 2021, soprattutto al CNR con lo scorrimento delle graduatorie “comma 2”. Nel Rapporto, in ogni caso, spicca l’assenza della distribuzione dei Ricercatori e Tecnologi per livello, non registrando quindi il fatto che più del 70% sono al III livello (quello più basso): di fatto, cioè, nell’ultimo decennio si è bloccato il normale sviluppo di carriera di questi lavoratori e lavoratrici.

Un finanziamento congelato.

Il rapporto ANVUR sottolinea come il FOE, il Fondo di Finanziamenti Ordinario per gli EPR parallelo a quello dell’università, ha conosciuto una dinamica simile a quella dell’università. Prendendo i valori al netto dei finanziamenti all’ASI (recentemente scorporato dagli EPR), il FOE passa da 1,29 mld di € nel 2012 a 1,08 mld di € nel 2017(un calo di oltre il 15%), per toccare 1,36 mld di € nel 2022 (una crescita nominale di 90 mln di € rispetto il decennio prima, circa il 7%). Come abbiamo visto per l’università, possiamo però calcolare un definanziamento effettivo a causa dell’erosione inflattiva (complessivamente, di quasi il 18%). Oramai moltissimi enti occupano una parte consistente delle proprie risorse per retribuire il proprio personale, e in questo calo reale delle risorse a disposizione trova ragione il blocco dello sviluppo di carriera che prima abbiamo sottolineato.

In conclusione.

Il rapporto ANVUR 2023, a distanza di cinque anni dal 2018, sembra delineare un quadro di progressiva ripresa del sistema italiano della formazione superiore e della ricerca, dopo la contrazione della Grande Recessione del 2008/2012 e le sciagurate scelte di politica economica allora condotte. La distorsione percettiva determinata dal periodo considerato (2012/2022) enfatizza però il recupero, che in realtà in diverse aree non ha ancora raggiunto i livelli del 2008 (a partire dalla spesa pubblica). Anzi, come richiamiamo nel titolo, nelle righe e nei dati di questo rapporto possiamo vedere emergere con chiarezza la nuova emergenza universitaria di questo paese (blocco degli organici, precariato, ma soprattutto incapacità di avvicinare i tassi di accesso all’istruzione terziaria dei paesi OCSE), oltre che la pericolosa disarticolazione del sistema della ricerca pubblica, con la sua riduzione reale delle risorse. Dalla disanima delle diverse dinamiche (Università, AFAM, Ricerca), in ogni caso, emerge anche il ruolo significativo che la contrattazione, e quindi le organizzazioni sindacali, hanno potuto giocare nell’ultimo decennio per ridurre il precariato e quindi stabilizzare il personale, nonostante condizioni generali avverse (a partire dalle risorse a disposizione).

Regini M. (2022). l sistema universitario italiano in prospettiva comparata: dalle carenze storiche alla sfida del PNRR. In Quale università dopo il PNRR, a cura di Marino Regini e Rebecca Ghio, Milano University Press, pag. 16.39.

Regini M. e Ghio R. (2022). Quale università dopo il PNRR, Milano University Press, Milano.