Riforma del pre-ruolo, Sinopoli: superare le ombre e gli arretramenti, rilanciare la stabilizzazione del precariato nelle Università
Servono norme e risorse strutturali per riallineare il nostro Paese agli standard europei.
Nelle ultime settimane è in atto un’accelerazione sul processo di riordino del pre-ruolo e del reclutamento universitario, da più di due anni in discussione in Parlamento. Sulla questione è intervenuto Francesco Sinopoli, segretario generale FLC CGIL, di cui riportiamo di seguito una riflessione su quanto sta succedendo nel dibattito su precariato e riforma del pre-ruolo nelle Università.
Abbiamo più volte denunciato gli effetti nefasti della legge 240/2010, con una frammentazione del lavoro di didattica e ricerca negli atenei e un aumento esponenziale del precariato selvaggio, che oggi coinvolge decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori senza diritti, tutele e rappresentanza.
Solo nove ricercatori precari su cento dal 2010 ad oggi hanno raggiunto una posizione stabile, attraverso il passaggio da ricercatore a tempo determinato di tipo B e quindi la conferma come professore associato. Tutti gli altri, dopo 12 anni e più di assegni di ricerca, contratti da ricercatore di tipo A, svariate forme parasubordinate di collaborazioni e docenze a contratto, sono espulsi dal sistema. Ad oggi più di sedicimila abilitati sono fuori dalle università italiane, senza considerare le altre decine di migliaia che hanno comunque percorsi pluriennali di lavoro e impegno nella ricerca e nella didattica. L’emorragia di intelligenze, competenze e conoscenze riconosciute a livello internazionale continua tutt’ora con grave nocumento per le università e per il Paese.
Questo inestimabile patrimonio ha bisogno di risposte adeguate e forti, che rimettano in discussione radicalmente le scelte politiche normative, contrattuali ed economiche degli ultimi dieci anni. Nella proposta di legge elaborata in Commissione Ristretta alla Camera, tenuto conto delle indicazioni del Governo in materia e dal documento CRUI fresco di elaborazione, emerge un quadro di interventi contradditorio, con alcuni aspetti positivi e diverse ombre.
Viene mantenuto l’assegno di ricerca, che rappresenta una forma contrattuale a basso costo, con livelli retributivi e previdenziali non adeguati alla stabilità e alla dignità del lavoro di ricerca, seppur in una forma rivista nella durata e con un innalzamento retributivo agganciato agli inquadramenti del CCNL sezione ricerca.
Positiva è la scelta di una figura unica da ricercatore a tempo determinato, ma i previsti 7 anni di durata con possibilità di conversione della posizione a professore di II fascia dal terzo anno, unitamente ai 4 anni per l’assegno, non fa che in buon sostanza confermare il lungo periodo di pre-ruolo previsto dalla legge 240/2010. Inoltre, non si accompagna a questo intervento una rivisitazione del sistema di abilitazione, necessaria a dare pari opportunità e armonia tra settori scientifico disciplinari, annullando quella dinamica di publish or perish che oramai affligge un sistema dominato da indici e parametri puramente quantitativi, spesso senza alcun senso reale. Come non viene previsto il necessario intervento su altre figure professionali, come quella del tecnologo, tuttora malamente regolate dalla legge 240 del 2010 e quindi non inseribili più congruamente nel CCNL Istruzione e ricerca (come avviene negli Enti Pubblici di Ricerca e come recentemente proposto dalla stessa CRUI).
Retribuzioni adeguate, tempi di vita e di lavoro, tutele previdenziali, rappresentanza si scontrano anche con l’altro pezzo fondamentale del disegno di legge in via di definizione. Nelle procedure concorsuali si prevede un blocco nell’accesso a coloro che nel medesimo ateneo siano stati titolari di contratto, assegno o anche semplicemente si sono iscritti a corsi universitari. Nelle ultime versioni viene introdotta la clausola di esclusione da questo blocco esclusivamente per le “donne con figli e le persone con disabilità”. Questo approccio alla mobilità professionale, basato unicamente su vincoli e divieti, è alquanto discutibile.
Queste norme, nel loro complesso e nello specifico dell’ultimo punto relativo alla mobilità, non prevedono infine alcuna norma transitoria, per permettere di andare a regime nel nuovo sistema senza lasciare residui o sperequazioni per le decine di migliaia di persone che da anni lavorano nell’università. In particolare, sottende uno smacco per un'enorme fetta di precari storici, per cui non è prevista alcuna procedura transitoria di assorbimento che valorizzi la carriera e l’enorme portato di lavoro di questi anni, permettendo di considerare i loro percorsi indipendentemente dai nuovi criteri temporali: non si prevede cioè nessun piano straordinario di stabilizzazione per loro (prevedendo le relative risorse), come non si interviene a risolvere le situazione delle figure ad esaurimento nell’attuale inquadramento (come c’era in alcune versioni in discussione, con progressioni di carriera per gli RTI in deroga alle facoltà assunzionali, in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale e, come anche richiesto dal CUN, individuando soluzioni anche per chi non l’avesse ancora conseguita).
Il Governo e il Parlamento ripensino a ciò che è successo da dieci anni a questa parte negli atenei e introducano norme e soprattutto risorse strutturali pari ad un miliardo e mezzo per rendere concrete almeno 20.000 posizioni stabili, per riallineare il nostro Paese agli standard europei.
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