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La controriforma degli ordinamenti didattici universitari

Articolo di Mario Giovanni Garofalo pubblicato su Rassegna Sindacale n. 25

30/06/2004
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1.- Dopo una lunga – ma, come vedremo, inutile - gestazione, sta per vedere la luce il nuovo regolamento che modifica gli ordinamenti didattici. Esso, infatti, ha già avuto il prescritto parere da parte della Commissione VII del Senato e sta per avere quello della Camera dei deputati.

Il tempo trascorso è stato, come accennavo, tanto lungo quanto inutile: sono stati, infatti, consultati numerosi organismi istituzionali e non; tutti questi organismi – chi più, chi meno – si sono pronunciati criticamente. Ma la cosa non ha impressionato il Ministro Moratti che ha tirato avanti per la sua strada senza lasciarsi, diciamo così, intimidire; in perfetta sintonia con il governo di cui è parte, ascolta i pareri solo di chi sia pregiudizialmente d’accordo con lei.

2.- Per spiegare i termini del problema, occorre partire dal decreto n. 509/1999, quello che – riformando l’antico ordinamento degli studi universitari – introduceva il noto 3+2. All’epoca, siamo stati critici nei confronti di molti dei contenuti di questa riforma, fortemente voluta dall’allora Ministro Luigi Berlinguer, in primo luogo perché si pretendeva di fare una così profonda riforma della didattica universitaria senza spese né in termini di strutture materiali (aule, laboratori, biblioteche ecc.), né in termini di risorse umane. Inoltre, con la moltiplicazione dei corsi di insegnamento frutto della riforma, molti di essi sono stati assegnati per supplenza ai ricercatori; la conseguenza è che praticamente non esiste ricercatore che non abbia uno o più corsi di insegnamento, mentre questo non è previsto nel loro stato giuridico; ulteriore conseguenza ovvia avrebbe dovuto essere la modifica di quest’ultimo riconoscendo finalmente ai ricercatori lo status di docente. Di questo, invero, Berlinguer era innocente, essendosi più volte espresso in favore di questa modificazione, ma una strana maggioranza parlamentare la affossò nella precedente legislatura.

Pur se numerose sono le critiche mosse al decreto n. 509, lo stesso andava apprezzato perché era il tentativo di dare una soluzione a problemi veri: in primo luogo, l’elevatissimo tasso di abbandono degli studi. Di qui il pressante invito – era questo il significato politico del decreto – al mondo accademico ad affrontare il problema e ad adeguare i propri comportamenti, rinunziando a rinchiudersi all’interno del proprio specialismo e facendosi carico sia di un progetto formativo complessivo, sia del processo di apprendimento degli studenti.

Ancor più criticabile è stata la gestione di questa riforma da parte del mondo accademico. Troppo spesso abbiamo assistito alla strenua difesa del proprio orticello e, come strumento alla realizzazione di questo fine, ad una moltiplicazione di percorsi formativi che non trovavano giustificazione né scientifica, né professionale.

3.- Ma allora, dirà qualcuno, bene ha fatto la Moratti ad intervenire per raddrizzare la situazione. La risposta è no, proprio perché le profonde modifiche proposte sono, da un lato, premature e, dall’altro, impongono al sistema un inaccettabile arretramento.
In primo luogo, in punto di metodo, se non si ritiene che la migliore riforma sia il mero ritorno all’antico e che il problema dell’altissimo tasso di insuccessi negli studi sia un dato irrilevante, l’intervento doveva essere preceduto da un attento monitoraggio di quanto successo per mettere a punto gli strumenti per realizzare un fine che si afferma essere condiviso: studi universitari fondati su progetti formativi insieme rigorosi e credibili. Un simile bilancio dell’esperienza compiuta avrebbe dovuto portare ad individuare certo le modifiche normative da apportare al decreto 509, ma anche gli errori compiuti nella sua gestione da parte dell’autonomia universitaria e, ancor più, a valutare quantità e qualità delle risorse fresche da immettere nel sistema perché gli obiettivi dichiarati possano essere raggiunti.

Invece, l’intervento della Moratti interviene su un’esperienza ancora incompiuta, della quale non sia ha una conoscenza precisa. E’ impossibile ad oggi – quando si sono appena conclusi i primi cicli di studi triennali e si stanno appena attivando le lauree specialistiche (il +2) – trarre un bilancio che abbia qualche significato.

E di questo troviamo uno strano riscontro nella contraddizione tra il titolo del provvedimento, che parla di modifiche al decreto 509, e il suo contenuto che lo riscrive interamente. Trattandosi, non di modifiche – anche in punti importanti, ma solo di modifiche che lascino intatto l’impianto –, ma dell’integrale sostituzione del vecchio testo con uno nuovo si pongono delicati problemi di transizione da un sistema ad un altro che andavano regolati e, invece, non lo sono.

4.- Nel merito, voglio prescindere da questioni pur importanti e delicate che derivano dalla scarsa chiarezza del testo, come il grado di vincolatività della nuova normativa rispetto all’autonomia degli Atenei e, dunque, lo spazio che questi avranno per proprie decisioni autonome oppure la scomparsa di indicazioni vincolanti in ordine alla necessità di evitare l’iperspecializzazione lasciando spazi ad insegnamenti "affini" e all’acquisizione di abilità linguistiche, informatiche e relazionali.

Mi voglio concentrare su due aspetti che ritengo di grande rilevanza. Il più importante è il cd. percorso ad Y. Dopo un anno comune, i percorsi che portano alla laurea triennale si biforcano in un indirizzo che trova il suo sbocco naturale e, forse, obbligato nella laurea di secondo livello ed un altro diretto all'acquisizione di specifiche competenze professionali, frequentato il quale sarà difficile, se non impossibile, accedere al corso di laurea di secondo livello. E' lo stesso disegno della scuola secondaria: invece di favorire percorsi formativi modulari e flessibili che consentano allo studente di arricchire progressivamente la propria formazione, insieme culturale e professionale, ritagliando gli studi sulle proprie esigenze e necessità, si creano percorsi rigidi che rendono irreversibili le scelte via via compiute. Il risultato sarà quello di studenti che hanno iniziato gli studi universitari con l'ambizione di percorrerli fino in fondo, scegliendo per questo il percorso per così dire "culturale", e che non essendo in grado, per le ragioni più varie, di portarlo fino in fondo, avranno un titolo triennale dichiaratamente non professionalizzante ovvero, viceversa, di studenti che hanno scelto il corso di laurea triennale "professionalizzante" che si vedranno ostacolati (e, forse, impediti) nella prosecuzione degli studi. La storia non ha insegnato nulla: i diplomi universitari – corso universitario breve, rispetto alla laurea tradizionale – non sono mai decollati proprio perché non erano utilizzabili ai fini della laurea piena.

Così si rinunzia a priori a quella che era la vera sfida della riforma del 1999: superare la rigida e scolastica distinzione tra insegnamenti formativi di base e insegnamenti professionalizzanti, realizzando un intreccio tra i due aspetti che consentisse alla laurea triennale di essere insieme professionalizzante (sia pure in un ambito più ristretto) e formativa di base. Si ripropone la gerarchia tra sapere critico e sapere tecnico che sembrava in via di superamento. Né può essere trascurato che la gerarchia tra i percorsi formativi si rifletterà immediatamente in una gerarchia tra i docenti destinati all'uno o all'altro che poco avrà a che fare con la qualità del lavoro svolto.

Un altro aspetto di grande rilievo è la scomparsa dei corsi Master universitari. L’Università, che dovrebbe essere la sede dell’alta formazione, viene invitata ad astenersi dall’intervenire nel campo della formazione post-laurea, mentre avrebbero dovuto essere incoraggiate e promosse le già numerose iniziative di collaborazione tra Università e mondo produttivo dirette ad accompagnare i giovani (e non solo: questi corsi devono anche inserirsi nei percorsi di formazione permanente) nel necessario tragitto da una indispensabile formazione di base – quella dei corsi universitari - e l’inserimento in concrete funzioni produttive. Un maligno osservatore potrebbe avanzare il sospetto che questa soppressione sia tesa a favorire il già fiorente mercato privato: è noto, infatti, che numerosi sono i corsi Master organizzati da soggetti privati, certamente a maggior costo di quelli universitari e, almeno talvolta, a non pari livello di qualità.

Infine, un aspetto non secondario è quello della sostenibilità organizzativa di tali scelte, che perpetuano la prassi delle riforme "a costo zero". Già la riforma degli ordinamenti in corso ha comportato un incremento significativo della popolazione studentesca e dell’attività didattica senza un corrispondente incremento né degli organici di personale docente e tecnico amministrativo, né delle strutture fisiche (aule, biblioteche e laboratori), peraltro sollecitato anche dagli incrementi di frequenza ai corsi prodotti dalla stessa riforma. Oggi si propone alle Università la creazione di un canale biennale aggiuntivo senza prevedere incrementi né di organici né di strutture fisiche.