Docenza universitaria: contro l’estensione della didattica obbligatoria
Un ricorso al TAR per difendere l’inquadramento nazionale.
In questi giorni la FLC CGIL, insieme a un gruppo di docenti di ruolo dell’Università per Stranieri di Perugia, ha presentato un ricorso al TAR contro il nuovo regolamento per l’attribuzione dei compiti didattici e dei doveri dei professori e dei ricercatori universitari.
Due i punti, in particolare, che abbiamo contestato.
In primo luogo, si prevede che le attività di insegnamento possano esser estese sino a 160 ore annue per i professori di ruolo, anche senza il loro consenso. L’articolo 4, comma 2, del nuovo Regolamento stabilisce infatti che devono esser dedicati all’insegnamento non meno di 120 ore per il regime a tempo pieno, e non meno di 80 ore per il regime a tempo definito. Qualora, attribuito il carico didattico istituzionale, permangano comprovate esigenze di copertura dei corsi di studio previsti dall’offerta formativa, le strutture, ove lo ritengano necessario, conferiscono in via eccezionale al docente compiti didattici aggiuntivi nel limite di 40 ore. Il monte-ore è così incrementato in presenza di esigenze oggettive, sulla base della programmazione didattica definita dai competenti organi accademici e sui criteri di pertinenza e coerenza del proprio settore concorsuale ove possibile, ovvero nell’ambito di un altro settore concorsuale in cui il professore abbia una comprovata competenza. Oltre tale limite (120 t.pieno/80 t.definito + 40 ore) per l’attribuzione di ulteriori ore occorre il consenso del docente.
In secondo luogo, nello stesso articolo si precisa che le 40 ore di insegnamento aggiuntivo possano esser attribuite ove possibile all’interno del proprio settore concorsuale. Di fatto si stabilisce che il Dipartimento possa imporre questi insegnamenti al di fuori del Settore Scientifico Disciplinare in cui si è inquadrati, diversamente da quanto giustamente previsto per le altre classiche 120 ore. L’articolo 7, comma 3, dello stesso nuovo Regolamento di Ateneo stabilisce infatti, conformemente a prassi e norma, che per le 120 ore il Consiglio di Dipartimento può assegnare ad un docente, motivandone adeguatamente necessità e opportunità, e con il consenso dell’interessato, attività didattiche anche in SSD diversi da quello di afferenza, previa valutazione della congruenza con il profilo scientifico del docente.
Le due previsioni, a nostro giudizio, si collocano ben oltre il dettato normativo, stravolgendo i diritti e di fatto lo stesso rapporto di lavoro della docenza universitaria. Rappresentano, quindi, un pericoloso precedente che rischia di estendersi a macchia d’olio.
Da una parte, infatti, si sradica così il chiaro limite orario posto dall’art 1, comma 16, della Legge 230/05 (la cosiddetta Legge Moratti che, sebbene mai andata a regime, è ancora vigente e regola specificamente gli obblighi dei docenti), il quale stabilisce letteralmente che l'espletamento delle attività scientifiche e all'impegno per le altre attività [è] fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica per lo svolgimento dell'insegnamento nelle varie forme previste. Cioè, di fatto, così si porta il carico didattico nazionale ad esser oggetto di discrezionali declinazioni in ognuno dei cento atenei del paese: non si vede perché, infatti, le 40 ore aggiuntive non possano diventare 20, 30, 60 o anche … 120, a seconda delle diverse sensibilità o valutazioni degli atenei. Ovviamente, sempre assegnate in via eccezionale, sulla base delle esigenze oggettive di non riuscire a coprire gli insegnamenti previsti con il personale a disposizione. Ci domandiamo, con estrema preoccupazione, cosa potrebbe diventare questa libera interpretazione negli atenei profit, telematici e non solo, dove questo grimaldello regolamentare potrebbe esser usato per determinare immediati risparmi (e quindi assicurare maggior ritorni agli investitori). Sarebbe, di fatto, il tramonto di ogni inquadramento nazionale della docenza universitaria, già molto logorata dalla prassi introdotta dalla Legge 240/10 di demandare ai Regolamenti di Ateneo aspetti essenziali del loro rapporto di lavoro, come le procedure di chiamata, i criteri per le progressioni economiche (gli scatti di anzianità), i provvedimenti disciplinari, o appunto alcuni elementi dei carichi e degli impegni dei docenti.
Dall’altra parte, riteniamo non meno grave la possibilità di affidare insegnamenti oltre il proprio SSD, senza consenso dell’interessato. In questi mesi si è a lungo parlato, nel CUN come più in generale nell’accademia, della revisione degli SSD e dell’introduzione dei Gruppi Scientifico Disciplinari (previsti dal DL 36/2022, ma al momento incagliati da qualche parte e di cui non si ha più notizia). In ogni caso, al di là delle valutazioni di ognuno, l’inquadramento della docenza universitaria è ancora basato su un’organizzazione nazionale Scientifico Disciplinare: ci domandiamo quindi, senza consenso dell’interessato (o senza sua diretta attivazione nella partecipazione ad un bando), come si possa pensare di affidare insegnamenti facendo riferimento al Settore Concorsuale ove possibile. La libera declinazione di questa interpretazione nei diversi atenei potrebbe portare rapidamente, senza o contro il consenso dell’interessato, ad attribuire insegnamenti anche molto distanti non solo dalle attività di ricerca del docente (scindendo un rapporto che dovrebbe guidare la didattica universitaria), ma anche dalle sue reali competenze, sulla base della discrezionale valutazione di assonanze o affinità disciplinari. Il rischio di abuso, in atenei profit e no profit, ci pare evidente. Lo stesso Regolamento dell’Università per Stranieri di Perugia (come abbiamo sopra segnalato) prevede di norma il consenso dell’interessato per le 120 ore (elemento da noi sottolineato nel ricorso). D’altra parte, questa è una consolidata prassi accademica, fondata su una normativa (per quanto confusa e soggetta a diverse interpretazioni). Infatti, gli affidamenti e le supplenze possono essere conferite esclusivamente a professori di ruolo e a ricercatori confermati del medesimo settore scientifico disciplinare o di settore affine: così riporta l’art. 12, comma 5 della L. 19 novembre 1990 n. 341, che così modificava l’art. 114 comma 1 del D.P.R. n. 382/1980. L’art. 1, comma 22, della legge 4 novembre 2005, n. 230 in realtà abroga quella previsione del 1990, a partire dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di riordino del reclutamento dei professori universitari previsti dalla stessa Legge 230/05. Quei Decreti, però, non hanno mai visto la luce: anzi, la loro previsione è stata a sua volta abrogata nel 2011 [art. 9, comma 4, D.P.R. 14 settembre 2011, n. 222]. In questo complesso passaggio (in cui trovano spazio diverse interpretazioni giuridiche), l’art. 114 comma 1 del D.P.R. n. 382/1980 risulta comunque tuttora vigente, come modificato nel 1990. Ci sembra quindi logico affermare, per coerenza rispetto all’inquadramento nazionale e anche per normativa, che non sia possibile affidare un incarico di insegnamento a docenti di ruolo che non siano del medesimo settore scientifico disciplinare o di settore affine, senza il loro consenso o loro partecipazione a specifico bando (art. 23 Legge 240/10).
Quando lo scorso anno fu modificata la normativa sull’insegnamento universitario, abbiamo sollevato più di una perplessità ed un allarme. Il DL 36/2022 (art 14, comma 6 sexies), convertito dalla Legge 79 del 29 giugno 2022, ha infatti modificato l’art. 1, comma 16, della Legge 230/05 (quello che appunto regola l’insegnamento dei docenti). In particolare, si è previsto che le possibili variazioni di quell’impegno (120 ore annue), da prendersi sulla specifica base dell'organizzazione didattica, della specificità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, non siano più regolate da un Decreto Ministeriale (come originariamente previsto e mai attuato in questi 18 anni), ma semplicemente da Regolamento di Ateneo. Noi eravamo preoccupati che questo passaggio determinasse che le stesse lezioni di geografia, matematica, archeologia o quant’altro, potranno comportare carichi didattici diversi alla Sapienza di Roma, al Politecnico di Milano, all’Università di Teramo, alla LUISS, a Unicusano Telematica o in qualunque altra università italiana. Sul piano generale, è evidente il rischio di introdurre ulteriori divergenze nei rapporti di lavoro dei docenti tra i diversi atenei, erodendo ulteriormente l’attuale stato giuridico nazionale (dopo gli interventi che assegnano ai regolamenti compiti generali, scatti di anzianità, procedure disciplinari e chiamate). Sul piano specifico, poi, è altrettanto evidente il rischio che alcuni atenei, magari quelli sotto organico per problemi di bilancio o quelli che si propongono prioritariamente un profitto dalle proprie attività, innalzino strumentalmente i carichi didattici in una serie di settori disciplinari, scaricando così su lavoratori e lavoratrici la tenuta dei propri conti (didattici e finanziari).
Siamo stati facili profeti. Nell’università delle libertà ogni ateneo si sente legittimato a interpretare la normativa a suo uso e consumo. La realtà è stata persino peggiore dei nostri timori. Senza neanche far riferimento ai criteri della normativa (l’organizzazione didattica, gli SSD, il rapporto docenti/studenti), gli atenei hanno dato libero sfogo alle proprie esigenze e volontà. Così, analizzando una decina di regolamenti rivisti o approvati dopo il luglio 2022 (dopo la definitiva conversione del DL 36/2022), abbiamo notato che oltre la metà di essi prevede la dizione non meno di 120 ore di insegnamento, mentre l’art. 1 comma 16 della 230/2005 prevede esplicitamente di cui 120 di insegnamento (la differenza non è poca, anche se poi quasi tutti precisano, rimanendo nel solco della norma, che le ore aggiuntive debbano esser con consenso dell’interessato). L’Università di Venezia Ca’ Foscari arriva a prevedere nel suo nuovo regolamento (DR 23.12.2022) non solo il non meno di 120 ore, ma anche la possibilità di assegnare una ulteriore quota di 30 ore non retribuibile ai professori e ricercatori che risultino inattivi secondo i criteri ministeriali di rilevazione dell’attività di ricerca (art 6, comma 5): una previsione precisa, non discrezionale come per Stranieri Perugia, ma che ci sembra assai fantasiosa nell’interpretazione dell’attuale normativa, al di fuori dall’attuale legge e quindi dallo Statuto giuridico della docenza universitaria.
Ci domandiamo, in tutto questo, dove sia il Ministero dell’Università e della Ricerca. La sua funzione di supervisione e controllo del sistema universitario nazionale, che è anche funzione di vigilanza della libertà di insegnamento e della regolarità del comportamento degli atenei, ci appare completamente disattesa. Ci domandiamo anche dove sia il Consiglio Universitario Nazionale: nel passato ha avuto parole e atti importanti sui compiti della docenza e dei ricercatori, sull’importanza della libertà e della qualità dell’insegnamento, sulla salvaguardia del sistema universitario nazionale. Oggi, qui come su altro, sembra forse appannare la propria azione. Ci domandiamo, infine, se non sia necessario più in generale che i docenti nel loro complesso si attivino e si facciano carico di ricollocare il loro rapporto di lavoro nel quadro di un’uniformità nazionale di diritti e condizioni, oggi messa sostanzialmente in discussione dalla de-regolazione degli atenei.
Su questo obbiettivo, in ogni caso, la FLC CGIL impegnerà la propria azione, come avvenuto con questo ricorso e come ribadito nella sua recente assemblea nazionale.
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