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CREA: autocertificazione del dipendente per il COVID19, certificato medico per la cefalea. Paradossi della “riforma” Brunetta

Con una decisione singolare, il CREA propone ai dipendenti di autocertificare l’assenza di sintomi febbrili e sintomi influenzali, rimettendo a carico dei lavoratori un accertamento che è onere del datore di lavoro allo scopo di garantire le norme di sicurezza in materia di emergenza COVID-19.

07/05/2020
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Pochi mesi fa, il dipendente pubblico che avesse avuto necessità di assentarsi anche un solo giorno dal lavoro per una comune cefalea (afflizione non contagiosa) avrebbe dovuto rivolgersi al medico del servizio sanitario, che avrebbe inviato «idonea certificazione» all’Amministrazione di appartenenza e all’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), competente per la verifica dell’effettivo stato di malattia.

Infatti, dalla sedicente “riforma” Brunetta del 2009, il dipendente pubblico non può autocertificare il proprio stato di salute, nemmeno per un solo giorno. L’art. 55-septies, d.lgs. 165/2001 (Controlli sulle assenze) è molto chiaro e specifica che «[…] l'assenza viene giustificata esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.»

In conformità alla rigorosa norma, il Manuale CREA stabilisce l’obbligo per il dipendente di «documentare lo stato di malattia, anche per un solo giorno» e che «l’attestazione medica telematica […] è necessaria anche per un solo giorno di malattia.» (Manuale Orario di Lavoro ver. 2.0, Adempimenti in caso di assenza per malattia, pp. 42-43).

Adesso, invece, in presenza di una pandemia insidiosa e letale come l’emergenza COVID-19, caratterizzata da portatori asintomatici del virus, il CREA disciplina le modalità di rientro o assenza dal servizio presso la sede di assegnazione mediante una autocertificazione del dipendente, cui si chiede di dichiarare (Aggiornamento DVR, Allegato 8, “Modulo di accesso in Azienda”): «di non aver avuto sintomi febbrili nella giornata odierna e di aver accertato in data odierna di non aver superato la temperatura corporea di 37.5 gradi, misurata prima di recarsi al lavoro; che nei prossimi giorni verificherà la propria temperatura corporea ogni giorno prima di recarsi al lavoro e solo in assenza di sintomi influenzali ed in assenza di temperatura superiore ai 37,5° si recherà al lavoro».

Non più “fannulloni” e “furbetti” sottoposti a pedissequa sorveglianza medica, ma sanitari esperti in «sintomi febbrili» e «sintomi influenzali», capaci di eseguire una diagnosi differenziale (rispetto alla rinite allergica, all’influenza comune o ad uno stato infiammatorio acuto), autocertificando quotidianamente il proprio stato di salute.

Resta semplice osservare che l’autocertificazione non può riguardare «certificati medici e sanitari» e che una dichiarazione sostitutiva può essere emessa solo per stati, fatti, qualità personali verificabili in ogni tempo (artt. 46 e 47, D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445) tra i quali, sicuramente, non rientrano la temperatura corporea o i “sintomi” febbrili o influenzali. Aggiungiamo che l’accertamento dell’idoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa è una prerogativa che il datore di lavoro ha sempre mantenuto e mantiene saldamente riservata.

In conclusione, davanti a una improvvisa “elasticità” gestionale e probatoria circa lo stato di salute del lavoratore, che si reputava del tutto assente nel Pantheon concettuale delle Amministrazioni, considerata l’assai restrittiva disciplina del rapporto di lavoro nel settore pubblico, emerge un dubbio: che l’orientamento favorevole all’autocertificazione per COVID-19 abbia semplicemente lo scopo di impedire la responsabilità del datore di lavoro per contagio e la conseguente tutela del dipendente per infortunio sul lavoro.

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