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Repubblica/Palermo: L'istruzione assistita

Giorgio Cavadi

02/12/2006
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la Repubblica

Lunedì scorso il viceministro Mariangela Bastico a conclusione di una visita in alcune scuole della nostra città, ha spiegato le linee guida della politica dell´istruzione del governo, a partire dai provvedimenti inclusi nella legge finanziaria. Obiettivo di questi primi interventi è favorire una scuola dell´inclusione dall´età prescolare, all´adolescenza (con l´innalzamento dell´obbligo a 16 anni) all´educazione degli adulti.
Lo slogan che accompagna questa strategia è molto efficace, preso in prestito da un bellissimo film cinese di qualche anno fa, cioè «non uno di meno». Il non lasciare nessuno fuori dall´aula, sembra sia un´azione ineludibile, specie se si guarda ai risultati delle ricerche di sociologi e ed economisti, presentati sulle pagine di questo giornale (Simonetta Fiori, Se la scuola non ci rende uguali, 28 novembre), che ci parlano invece di un sistema della formazione che, dalla scuola secondaria all´università, tende a replicare i privilegi e le rendite di posizione. Così tra i nati degli anni Settanta «circa il trenta per cento dei figli di padri con titolo di scuola media raggiunge il titolo di scuola media… ma solo pochi (per percentuali inferiori al dieci per cento) la laurea». E ancora oggi, circa l´85% degli studenti dei licei intende proseguire gli studi a fronte del 34,5 % degli iscritti agli istituti tecnici. Insomma sembra proprio che alla sommità della piramide dei pochi giovani che completano il proprio ciclo di studi con una laurea, vi siano in prevalenza quasi esclusiva i figli dei laureati. Eppure, occorre dirlo, questo avviene a fronte di una scuola ha sicuramente realizzato alcuni delle indicazioni di Don Milani; è, per esempio una scuola dove non si boccia quasi nessuno alla scuola dell´obbligo e che, seppure con i limiti delle cose umane, permette la frequenza di corsi universitari anche a studenti provenienti da fasce sociali disagiate attraverso l´abbattimento delle tasse, borse di studio e alloggi. Mentre nelle scuole pubbliche e private, arrivano provvidenze di ogni tipo per alunni bisognosi.
Tuttavia, siamo proprio sicuri che sia unicamente responsabilità del nostro sistema scolastico se esso si trova nelle condizioni di perpetuare le disparità sociali, in flagrante contraddizione con l´articolo 3 della Costituzione? In altre parole cosa è ancora oggi che ostacola la piena realizzazione della scuola di don Milani specie nel Sud dell´Italia dove, ancor di più, la scuola dovrebbe agire da volano della promozione sociale?
Certamente agisce in primo luogo il travaso esistenziale dei vasi comunicanti della società dei consumi che, specie durante l´adolescenza, nella dinamica vuoto-pieno, induce a compensare (apparentemente) il vuoto di un progetto di vita per mezzo del possesso temporaneo di beni effimeri. Mentre, per dirne una, è palese che, per sfondare nel mondo dello spettacolo, non occorra affatto studiare. Così salendo nella nostra piramide il cui vertice, sempre più esiguo, ci dice di quanti pochi giungano alla laurea, c´è da domandarsi come mai, a fronte di un sistema come quello delle lauree brevi, che sovente ha portato alla liceizzazione dell´università, proprio per consentire l´accesso e il conseguimento alla fasce più deboli, siamo ancora di fronte a dinamiche che replicano le differenze fra ceti? Credo che sia possibile addebitare questo fenomeno di largo insuccesso formativo al fatto che in un´economia assistita, come è quella siciliana, sorretta da precise scelte politico-clientelari, il titolo di specializzazione sia esso secondario o universitario serve a poco o nulla, se i canali di cooptazione sono le liste del precariato, le anticamere del sottogoverno e la chiamata diretta più o meno camuffata. Mi raccontava l´altro giorno un docente di un istituto tecnico palermitano, che i ragazzi sono perfettamente coscienti che per diventare lsu e simili, o per essere assunti da molte aziende pubbliche (che di pubblico hanno solo il nome) il titolo di studio specifico non serva a nulla. Ma c´è di più; si giunge al paradosso per cui molte aziende «pubbliche» che hanno partecipato con le scuole a costruire percorsi di formazione integrati (in sigla Ifts) per formare figure professionali nuove e competenti, non abbiano poi considerato nei propri concorsi il titolo conseguito in questi corsi come un requisito, scegliendo di privilegiare competenze di altro genere. Perché quindi studiare e faticare per conseguire un titolo secondario o accademico depotenziato già in partenza da questi sistemi di «selezione» del personale?
In maniera esatta e contraria nel ricco Nord-Est, il figlio del piccolo o medio imprenditore, perché dovrebbe proseguire negli studi se, un titolo di studio medio superiore, è già sufficiente per mantenere una rendita di posizione che gli permetta di condurre l´azienda di famiglia?
In questo quadro, a chi credete che «parli» la cultura umanistica che costituisce l´ossatura della scuola italiana? Quale appeal può avere di fronte a scorciatoie legalizzate che ogni giorno si offrono all´attenzione dei più deboli, attesi al varco da chi è pronto a offrirgli di rinunziare alla propria emancipazione sociale, in cambio di una manciata di voti?


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