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Valutare l'Università

di Mimmo Perrotta

24/11/2013
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Sono un ricercatore universitario. Dopo il dottorato di ricerca, ho beneficiato di borse, assegni e contratti di docenza e infine ho vinto un concorso, uno degli ultimissimi banditi per i ricercatori a tempo indeterminato, una figura che nel frattempo, nel 2010, la riforma Gelmini aveva abolito, nonostante le proteste di buona parte del mondo universitario. Nella mia generazione, sono tra i pochissimi “fortunati” che hanno potuto raggiungere questa posizione. La gran parte dei miei colleghi, amici e coetanei, così come molti ricercatori più anziani, è costretta ad accettare contratti e assegni temporanei, per giunta banditi in misura sempre minore a causa dei tagli di bilancio che anche l’Università subisce. Pochi tra loro, purtroppo, riusciranno ad accedere alla nuova posizione di ricercatore a tempo determinato o verranno assunti, dopo aver ottenuto l’abilitazione nazionale, come professori associati. Si tratta per certi versi di un vero dramma generazionale, oltre che di uno spreco di risorse, in quanto moltissimi ricercatori che sono stati formati per anni nelle strutture accademiche stanno cambiando mestiere o andando a cercare un impiego all’estero.

L’espulsione (o la precarizzazione senza speranza di stabilizzazione) di molti giovani ricercatori dopo lunghi periodi di praticantato e lavoro di ricerca è forse uno dei processi più visibili e quantitativamente importanti in atto nell’Università italiana di questi anni. Un altro processo estremamente visibile, e in modi ambigui e contraddittori collegato a questo, è l’aumento delle procedure di valutazione del lavoro universitario, la cui espressione massima è l’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della ricerca (Anvur), istituita nel 2006 con una legge del ministro Mussi e i cui lavori sono poi cominciati tra il 2010 e il 2011, nell’era Gelmini.

Sono oggetto di valutazione i Dipartimenti universitari, i corsi di laurea, le pubblicazioni dei singoli docenti, le riviste scientifiche e in misura minore la didattica. Numerosissime e vivaci polemiche hanno accompagnato le nuove procedure di valutazione. Sono stati criticati (dai movimenti dei ricercatori, dei precari e degli studenti, ma anche da singoli docenti e rettori e da istituzioni del mondo accademico) l’impianto generale che l’Anvur ha messo in piedi rispetto alla valutazione, basato su criteri quantitativi e bibliometrici più che su processi di peer review; le nomine (ministeriali) dei membri del Consiglio direttivo dell’Anvur e dei gruppi di lavoro disciplina per disciplina (e le loro retribuzioni eccessive); l’iperburocratizzazione che accompagna la valutazione e che appesantisce il lavoro dei docenti e del personale amministrativo; la compilazione dei ranking delle riviste scientifiche; gli esiti spesso deludenti di questi processi di valutazione, che sembrano in sostanza modificare poco le routine accademiche (a parte il nuovo carico di “carte” da compilare), a fronte di spese eccessive.

Non ho seguito questi dibattiti con la dovuta attenzione e non sono diventato, come alcuni miei colleghi, un esperto di processi di valutazione; non voglio, quindi, in questo contributo, proporre una critica delle procedure adottate dall’Anvur, né tantomeno sono in grado di elaborare proposte alternative, come altri hanno fatto. Per questo rimando all’articolo di Francesca Coin e ai siti roars.it e rete29aprile.it, nei quali è possibile trovare molti materiali e riflessioni su questi temi.

Vorrei proporre invece delle rapide considerazioni su alcuni effetti dell’avvento della valutazione nell’Università e in particolare sull’intreccio tra questa e la realtà di precariato nella quale lavorano molti giovani accademici.

La valutazione è stata presentata come necessaria soprattutto per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché è cresciuta nell’opinione comune l’idea che molti docenti e ricercatori universitari siano dei fannulloni, o quantomeno dei privilegiati, e che i meccanismi di reclutamento siano opachi e dominati da nepotismo, baronie e abusi di vario tipo: docenti che non si presentano in aula e fanno tenere le lezioni ai loro assistenti e portaborse, ricercatori che non pubblicano un articolo scientifico per anni, riviste che non legge nessuno e che vengono tenute in piedi con i fondi dei dipartimenti solo per permettere ai docenti di aggiungere pubblicazioni ai propri curriculum, cooptazione di nuovi ricercatori privi di curriculum adeguati, mentre colleghi seri e con montagne di pubblicazioni anche su riviste internazionali vengono lasciati a casa con motivazioni ridicole. È impossibile negare che questa sia una realtà nel mondo universitario. Rispetto a questo la valutazione – indipendente, imparziale, professionale, trasparente, come si legge sul sito dell’Anvur – è stata presentata come uno strumento indispensabile sia per “costringere” i docenti a lavorare di più, o quantomeno per premiare i migliori tra loro, sia per rendere più equi ed efficienti i meccanismi di reclutamento, che dovrebbero portare ad assumere i ricercatori valutati come più bravi e produttivi. La seconda ragione è, come in molti altri settori, dalla scuola alla sanità alla pubblica amministrazione, la crisi economica e la conseguente necessità di tagliare le spese e “sfrondare i rami secchi”: in questo senso la valutazione è necessaria, viene ripetuto, per capire dove e cosa tagliare e come allocare meglio le scarse risorse disponibili. Questo processo dovrebbe portare a diminuire il numero di docenti, di corsi di laurea e persino di atenei.

Per questi motivi, e nonostante le vivaci polemiche su vari aspetti, la valutazione è stata salutata positivamente da vari settori del mondo universitario (oltre che non universitario). Ad alcuni essa è sembrata poter diventare uno strumento concreto di lotta alle baronie e agli abusi nelle procedure di assunzione; in alcuni settori disciplinari questo ha portato, in un clima di contrapposizione generazionale, a momentanee alleanze tra la parte del mondo docente che si ritiene più “produttiva” e desiderosa di scalzare i vecchi baroni fannulloni, e la massa di precari che nel frattempo vedeva le porte dell’Università chiudersi inesorabilmente con l’abolizione della figura del ricercatore e il taglio dei fondi. Non pochi ricercatori e precari, in parte anche all’interno dei movimenti, hanno visto nelle nuove procedure di valutazione, magari migliorate ove possibile, una misura che potesse attutire l’effetto dei tagli.

È difficile prevedere se questi processi riusciranno davvero a incidere nell’accademia italiana, se la valutazione – soprattutto attraverso l’attribuzione di maggiori finanziamenti a docenti e dipartimenti “virtuosi” – produrrà nuovi habitus nel personale universitario, se i (pochi) concorsi indetti vedranno premiare i migliori giovani ricercatori, se i docenti saranno stimolati a produrre di più.

Quello che, da un punto di osservazione ammetto piuttosto ristretto, mi pare di aver notato è che il cambiamento maggiore intercorso finora riguarda la grande quantità di carte e moduli da compilare, mentre molti docenti, soprattutto quelli più abituati a gestire posizioni di potere, hanno saputo subito adattarsi alle nuove procedure di valutazione senza in sostanza cambiare molto le proprie pratiche di lavoro accademico e di cooptazione. Tutto cambia per non cambiare nulla, dunque?

Forse… ma intanto possiamo registrare anche dei cambiamenti in peggio. Come ho già accennato, l’idea che le nuove procedure di valutazione standardizzate potessero migliorare il funzionamento dei concorsi e consentire l’assunzione dei ricercatori “davvero meritevoli” ha in alcuni momenti cruciali distolto l’attenzione dal drastico taglio dei finanziamenti alla ricerca e quindi dal fatto che i nuovi criteri di valutazione ritenuti oggettivi sono infine all’opera per pochissimi concorsi. Insomma, il dibattito sulle procedure di valutazione ha impegnato le istituzioni universitarie, e forse anche i movimenti dei ricercatori, in misura maggiore rispetto all’elaborazione di una seria critica al governo della crisi.

In secondo luogo, mi pare che abbia suscitato poche critiche un assunto che sta alla base della nuova ondata valutativa, e cioè l’idea che sia possibile valutare oggettivamente il merito e il lavoro dei ricercatori e dei docenti. Se è vero che alcuni concorsi hanno avuto esiti criticabili e talvolta scandalosi, è anche vero che è impossibile pensare a strumenti di valutazione del tutto neutrali, specie in campi come quelli delle scienze umane e sociali, che dovrebbero essere invece caratterizzati da vivaci conflitti tra approcci e visioni diverse del mondo, della cultura, del lavoro intellettuale.

Penso quasi tutti concordino sul fatto che il barone fannullone, nepotista e truccatore di concorsi sia una figura da eliminare (così come il suo alter ego, il giovane portaborse arrivista e leccapiedi); ma siamo sicuri che questo sia l’unico o il principale problema dell’Università italiana? In Università lavora tanta gente seria, scrupolosa, curiosa, corretta… Bisognerebbe, allora, ragionare su quali siano i modelli positivi da “premiare” (oltre, naturalmente, ai ricercatori da premio Nobel). Molti docenti e ricercatori che le procedure di valutazione premieranno come estremamente produttivi scelgono temi di ricerca privi di rilevanza sociale e politica, si impegnano in sterili dibattiti interni alle proprie cerchie e scuole di riferimento, fanno lezione su argomenti che non saranno per nulla utili per i futuri laureati, si rinchiudono nei propri dipartimenti senza cercare contatti con il mondo “là fuori” (se non per cercare i tanto agognati finanziamenti dei privati). L’idea che i docenti universitari, se valutati, diventeranno più produttivi (e che i giovani ricercatori dovrebbero essere assunti perché produttivi) dovrebbe essere accompagnata da una seria discussione a più livelli in merito a “cosa” l’Università – nelle sue diverse componenti, nelle varie discipline, nei singoli dipartimenti – debba “produrre”, in termini di didattica, formazione, ricerca, saperi, ecc. Prima che i tagli diventino irreparabili.

Questo articolo è uscito sul numero 18 de “Gli asini”, ottobre/novembre 2013


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