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Unità:Un argine forte contro la violenza, anche a parole

intervista a Guglielmo Epifani

24/11/2006
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l'Unità

LA NUOVA FASE

Dopo l’animato direttivo, dopo le mozioni contrapposte, Guglielmo Epifani spiega la strategia della Cgil: una forte azione sindacale per conquistare immediati risultati col governo, è il momento del fare. Le differenze non spaventano. Cerchiamo una leale unità e non comodi unanimismi

Epifani, il decreto fiscale è passato senza fiducia e senza sorprese, che ne pensa?

«È apprezzabile, per il contenuto perché era il cuore della parte redistributiva dell’azione del governo, e perché la scelta di non mettere la fiducia ha confermato una sua bontà intrinseca. Si è rischiato, però è diventato tutto più trasparente. A differenza di quanto è avvenuto alla Camera quando è stata posta la fiducia su un articolo di 253 commi. I commi rispondono a una logica “oligarchica”, sono apparse e scomparse cose e non si è capito chi ha messo e chi ha tolto. È scomparsa la malattia per i parasubordinati, il salario convenzionale per le cooperative, e sono apparsi 50 milioni per l’acquisto di televisori digitali».

Il vostro direttivo ha molto discusso della finanziaria, è passato un documento con 63 voti. C’è una divisione?

«Sulla finanziaria il giudizio del direttivo è quasi unanime. Il documento che ha avuto la maggioranza - quindi l’orientamento della Cgil - e quello della vecchia minoranza di “Lavoro e società” su questo punto sono identici, danno lo stesso giudizio. Ma anche Gianni Rinaldini ha condiviso il giudizio della mia relazione».

Lo può sintetizzare?

«Si apprezza l’impianto, le scelte fondamentali, ma non si nascondono le critiche e le richieste di cambiamento. La valutazione è che alla finanziaria manca un cuore, un centro, un collante strategico che porti un progetto, non soltanto il risanamento dei conti. Avevamo indicato investimenti per università, ricerca, innovazione e per questa via la lotta alla precarietà. Invece la manovra non parla al bisogno di cambiamento del paese e, senza un centro, non pone un argine alle spinte corporative e localistiche.

Sono possibili modifiche?

«Se ci sono 50 milioni per i televisori digitali e tanti altri per cose superflue, non capisco perché non ci siano i soldi per cose essenziali per i lavoratori».

Quindi la Cgil non è spaccata sulla finanziaria.

«No, assolutamente. E anche sull’avviso comune sui call center c’è stata una larga maggioranza».

Ci sono però posizioni diverse sul corteo del 4 novembre. Avete discusso senza falsi unanimismi. Con quali risultati?

«Sapevo che c’erano opinioni diverse, ho voluto esplicitamente andare a un confronto vero, si apre una fase delicata e ho preferito cercare la chiarezza. È stata una discussione molto forte, importante, intensa. Mi ha ricordato quelle di tanti anni fa, il direttivo è tornato ad essere la sede in cui si dicono le cose guardandosi negli occhi. Un confronto che un gruppo dirigente deve fare perché il valore delle opinioni, il rispetto, il poterle esprimere sono il sale della nostra democrazia. E perché come in tutte le organizzazioni, una volta assunto un orientamento, questo vale per tutti. Il sindacato vive di norme democratiche, di regole anche formali: aver ripristinato questa discussione è un valore in sé».

Decide la maggioranza: valori, regole e obiettivi valgono per tutti. Sono tutti avvertiti?

«Esattamente. E voglio dire che i punti di vista diversi ci sono stati non tanto sulla manifestazione del 4 novembre, come ho letto da parte di chi vuol dare una raffigurazione che non va al cuore del problema. Ho sempre detto che guardavo con rispetto a chi ha partecipato, ai tanti giovani, e aggiungo che la questione non è neanche il rapporto con i movimenti che per la Cgil resta importante. Ho posto un altro problema: una componente di quella manifestazione ha espresso giudizi, offese, personalizzazioni di giudizi che erano e sono inaccettabili. Hanno portato al ritiro delle adesioni dei segretari di due strutture della Cgil che il giorno dopo sono stati nuovamente attaccati. Guardando al 4 novembre ma pensando al dopo, ho posto l’esigenza di una demarcazione molto netta anche contro chi la violenza la pratica con le parole, gli insulti e la personalizzazione del confronto. Questo era il tema posto e su questo il direttivo della Cgil si è espresso con la massima chiarezza che non riguarda questa o quella organizzazione: può riguardare tutti e nessuno, non dipende dal chi, ma da come ci si confronta, da quello che si dice e da quello che si fa. Quindi una demarcazione che vale per 360 gradi, un discrimine che per il futuro deve valere per tutti. Il direttivo ha assunto e confermato questa scelta».

Esiste un caso Fiom? È normale che dirigenti della più grande categoria dell’industria si distinguano dalle scelte della confederazione?

«È capitato nel passato e capita, appartiene alla dialettica. È chiaro che quando non si condivide si ha il dovere di dirlo. Rinaldini non ha condiviso e lo ha detto. Ho apprezzato la sua non condivisione esplicita e al comitato centrale della Fiom, lunedì, ribadirò punto per punto le opinioni che ho espresso al direttivo e dirò qual è la linea della Cgil».

Che cosa si aspetta dal comitato centrale della Fiom?

«Un dibattito vero».

Lei pare tranquillo anche se dall’esterno la Cgil è parsa piuttosto turbolenta. Due documenti, 14 astenuti, è sembrato che i fatti ridisegnassero i confini di maggioranza e minoranza.

«Ma no, la grande maggioranza dell’organizzazione condivide le linee uscite dal direttivo. E con la vecchia minoranza la diversità sta nel giudizio sul 4 novembre e non sulla finanziaria. C’è stata l’astensione della maggioranza Fiom e di altri compagni e questa è una novità perché in precedenza il segretario dei metalmeccanici aveva votato a favore e Giorgio Cremaschi contro».

Che sbocco avranno queste astensioni?

«Non credo che si debba chiederlo a me. Registro intanto che non hanno votato contro. Ho detto che discuteremo al comitato centrale della Fiom. E poi si vedranno le scelte future. Il tempo dirà se esistono punti di vista diversi».

In questa come in altre fasi la Cgil parrebbe specchiarsi nella dialettica interna alla sinistra ora al governo. E così?

«La dinamica sociale è più complessa di quella politica e non è mai corrispondente. È chiaro che c’è un’interdipendenza, un rapporto, ma non si può leggere la dinamica di un confronto interno a una forza sociale con quello che avviene in politica. Non schematizzerei, non tradurrei il nostro confronto nel rapporto tra partito democratico e nuova sinistra, è riduttivo e sbagliato. Anche perché in campo queste ipotesi ancora non ci sono. La ricondurrei ad altre logiche. Ad esempio nel rapporto tra la dimensione sindacale dei processi e chi forse pensa a un rapporto di movimento inteso non come strumento, ma come fine. Io credo che oggi l’iniziativa serva a conquistare la cultura del fare, dello strappare intese. Abbiamo alle spalle anni in cui siamo stati costretti a fare iniziative e lotte per contrastare, per opporci per difenderci. Oggi l’iniziativa serve a raggiungere risultati e a dare risposte concrete ai bisogni delle persone che rappresentiamo. Altrimenti non fallisce il governo, ma il problema tocca noi, la Cgil, il sindacato. Per questo è fondamentale la scelta di unità con Cisl e Uil anche se ci è costata e ci può costare. Lo dico anche scontando che magari potremmo dividerci sul mercato del lavoro».

Questo discorso porta al diverso atteggiamento della Cgil rispetto alla passata legislatura, è per via del «governo amico»?

«Una semplificazione sbagliata, basti pensare alla fatica che ci è voluta per strappare alcune cose in finanziaria, non ci è stato regalato nulla. L’idea di un “governo amico“ porta l’idea di un governo compiacente con il sindacato e di un sindacato subalterno al governo: non è così. Chi raffigura la dialettica in questo modo cerca una scusa e un alibi a risposte che non sa trovare in altro modo».


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