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Unità: Ricerca e sviluppo L’anomalia italiana

Il convegno sulla comunicazione della scienza

03/12/2007
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l'Unità

di Cristiana Pulcinelli

Il mondo si trova ad una svolta epocale per quello che riguarda la scienza. Gli investimenti per la ricerca non sono mai stati così alti: nel 2007 hanno superato i 1.100 miliardi di dollari. Il che vuol dire che il mondo investe in ricerca e sviluppo il 2,1% della ricchezza che produce.
È un processo che riguarda tutti, ma alcuni paesi più di altri. Ad esempio, l’Europa, che per 400 anni è stata il cuore della scienza, oggi investe meno della media del mondo: l’1,9%. Mentre l’Asia si situa al primo posto. La Corea del sud, ad esempio, che ha un Pil più basso del 40% rispetto al nostro, investe in termini assoluti quanto l’Italia e la Spagna messe insieme. In questo quadro di luci e ombre, ma che prospetta un futuro in cui la ricerca diventa multipolare, l’Italia sembra non essere toccata da questo vento e andare in una direzione opposta: l’investimento è solo dell’1,1% del Pil. Non investiamo in ricerca e i risultati sono drammatici: cala il reddito pro capite, il numero degli occupati, peggiora la nostra efficienza energetica (e, quindi, inquiniamo anche di più).
I dati sono emersi dal convegno sulla comunicazione della scienza, organizzato dal gruppo per l’Innovazione nella comunicazione della scienza (Ics) della Sissa di Trieste e dall’associazione Nuova civiltà delle macchine.
Quali sono i mali italiani che ci impediscono di entrare a far parte di questa corrente che investe il resto del mondo?
Nel corso del convegno ne sono stati analizzati alcuni. Il primo, ad esempio, è la mancanza di una ricerca privata nel nostro paese: nel mondo si è passati da un tempo in cui per ogni due dollari investiti dal pubblico nella ricerca corrispondeva un dollaro investito dai privati ad un tempo in cui il rapporto si è invertito. Unica eccezione l’Italia, dove gli investimenti privati sono diminuiti. Il secondo è l’imposizione all’organizzazione della scienza di paradigmi estranei alla scienza stessa, ad esempio la burocratizzazione. E ancora, la mancanza di una discussione tra ricercatori e cittadini: un fenomeno che genera due atteggiamenti opposti, da un lato la paura della scienza, dall’altro la fiducia cieca nei suoi risultati che non possono venir messi in discussone. Inoltre, ci sono mali antichi: ad esempio, una ricerca che non è basata su principi di meritocrazia e che è troppo condizionata dalla politica, o ancora una classe dirigente culturalmente lontana dalla scienza. A tutto ciò si aggiunga il fatto che ai nostri ricercatori spesso manca quello che gli anglosassoni chiamano «positive attitude and thinking» e che potrebbe essere sintetizzato nell’espressione «credere in quello che si fa», e il quadro si fa fosco.
Per fortuna, è emerso dal convegno, nel nostro paese fioriscono anche tante piccole iniziative che cercano di avvicinare la gente alla scienza e che potrebbero avere un ruolo importante nel ribaltare la nostra vocazione al declino.


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