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Unità-Incivile è chi ha distrutto la concertazione

Incivile è chi ha distrutto la concertazione di Pasquale Cascella Incivile è il conflitto sociale o il conflitto di potere attorno alla Fiat da sempre considerata un patrimonio del paese? Dovre...

12/12/2002
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l'Unità

Incivile è chi ha distrutto la concertazione
di Pasquale Cascella

Incivile è il conflitto sociale o il conflitto di potere attorno alla Fiat da sempre considerata un patrimonio del paese? Dovrebbe prendere, Silvio Berlusconi, qualche ripetizione di storia delle relazioni sindacali, oltre che quelle di diritto costituzionale consigliategli da Savino Pezzotta. Per scoprire che in democrazia, tanto più in quelle che si professano liberali, non ci sono scioperi civili e forme di lotta incivili. C'è una conflittualità che può esprimersi e assumere significati diversi, a seconda di come viene regolata e stabilizzata. C'è da chiedersi, allora, se e perché l'Italia stia regredendo a modelli di conflittualità passati, che faticosamente i sindacati hanno cercato di assorbire in una cultura rispettosa tanto dei diritti propri dei lavoratori quanto di quelli dell'intera collettività.

Uno sciopero serve a far valere rivendicazioni che le controparti sono restie ad accettare. E non è mai senza prezzo. Ma quando questo costo si rivela troppo alto, se non addirittura vano, la sproporzione rispetto all'obbiettivo finisce giocoforza per alimentare le forme di protesta più estreme, fors'anche disperate. Lo hanno ben inteso i cittadini siciliani che si sono sentiti più danneggiati dalla chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese che dalle manifestazioni di protesta in cui sono stati investiti.

Hanno, cioè, avvertito tutta la civiltà di una lotta volta a impedire che lo smantellamento dell'unica attività produttiva di quell'area avrebbe fatto il deserto non solo dei posti di lavoro chi oggi vi è occupato ma delle stesse prospettive di ripresa economica dell'isola. Né quelle modalità di lotta si sono fermate sullo stretto di Messina: rimbalzando a Melfi e a Cassino, fino a Milano e a Torino, hanno messo in moto un allarme sociale che va ben oltre la minaccia dell'occupazione là dove è meno arduo riassorbirla.

Non si può più, insomma, parlare di mera microconflittualità. E nemmeno invocare l'antica vocazione ribellistica di tanta parte del movimento meridionale segnato com'è dalle origini bracciantili. Storicamente la classe operaia del Nord ha una sua centralità: non ha dovuto persino rivendicare il diritto di indossare il cappotto e il cappello a lobbia, come insegnava Giuseppe Di Vittorio, per acquisire dignità e ruolo sociale. Tanto più l'esprimersi in forme così radicali anche della parte più matura del movimento operaio rivela la profondità della crisi delle relazioni industriali e sociali. Innescata, non lo si dimentichi, dallo scontro sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dall'accordo separato in nome del neo corporativismo.

Non è un parlar d'altro. Ricordava Luciano Lama, nell'"Intervista sul sindacato" di Massimo Riva, come la peculiarità dello Stato consistesse nel "garantire le libertà individuali e, solo attraverso queste, anche quelle collettive costruite appunto sulle volontà dei singoli". Grazie a quella conquista, che "allargava le basi della democrazia reale nel paese", in Italia è stato possibile istituzionalizzare pragmaticamente, a cospetto tanto del modello anglosassone della separazione della sfera economica da quella politica quanto di quello socialdemocratico della partecipazione sociale alla politica statuale, un conflitto altrimenti condizionato da una democrazia bloccata dalla pregiudiziale anticomunista (di fatto estesa alla Cgil, il maggior sindacato dei lavoratori).

Tant'è che solo dopo lo Statuto dei lavoratori si fece strada la politica dell'Eur, che pure non ebbe modo di esprimersi compiutamente con il venir meno delle condizioni politiche che avrebbero dovuto alimentare la fiducia nella capacità dei "sacrifici" di tradursi in risultati avanzati. E però consentì al conflitto sociale di far valere le ragioni del mondo del lavoro nel più potente, e complesso, processo di ristrutturazione (si pensi solo a cosa ha significato la concentrazione al Sud delle attività chimiche e siderurgiche di base e la riqualificazione sui segmenti specializzati degli stabilimento del Nord) che l'apparato produttivo italiano abbia conosciuto dal dopoguerra.

Il passaggio al bipolarismo, e quindi la legittimazione dell'alternanza politica, ha consentito il recupero di una concertazione sociale che, pur non spingendosi (nemmeno con il governo di centrosinistra) allo scambio politico di stampo socialdemocratico, si è rivelata funzionale alla gestione di passaggi cruciali, come quelli dell'euro e del nuovo sistema di concorrenza economica, senza che l'onere del risanamento si scaricasse unicamente sul mondo del lavoro.

Non meno pesante ed emblematica si presenta l'odierna ristrutturazione della Fiat. Ma, ancor più di quelle che negli anni Settanta hanno mutato il panorama industriale italiano, questa resta indeterminata nelle prospettive produttive, finanziarie e persino societarie, anche perché l'istituzione governo ha rinunciato a esercitare la funzione di mediazione del conflitto incanalatosi, nel tempo, verso gli stessi livelli dei paesi europei più direttamente concorrenti. Peggio: l'accordo diretto con la Fiat (separato, questa volta, con tutte e tre le confederazioni sindacali) ha reso impraticabile ogni canale alternativo per la regolazione diretta del conflitto.

Così, la stessa concezione neo corporativa delle relazioni sociali si ritorce su stessa, rivelandosi funzionale solo allo scambio interno al sistema politico-economico. In questo sì, Berlusconi può dirsi maestro di conflittualità: tra il suo interesse particolare e l'interesse generale del paese. Come dire che il premier prima di cianciare dell'inciviltà di lotte che l'opinione pubblica avverte funzionali al recupero del potere di contrattazione dei lavoratori, dovrebbe interrogarsi sull'inciviltà di un modello che tradisce l'equilibrio sociale così faticosamente conquistato. E Dio non voglia che, quando dice che "bloccare le autostrade è una cosa che non si può accettare, Berlusconi creda di potersi ritrovare a proprio agio nei panni che persino Mario Scelba non volle sporcare con i materia di risulta della spaccatura del paese.


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