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Studenti in fuga dalle università

Tito Boeri

01/02/2013
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la Repubblica

Calano studenti e docenti, nonostante il nostro Paese sia già il fanalino di coda nell’area Ocse nella percentuale di
trentenni con una laurea.
I dati diffusi ieri dal Cun (Consiglio universitario nazionale) sulle iscrizioni alle università italiane confermano che negli ultimi 10 anni l’università italiana ha perso circa 50.000 iscritti, un sesto di coloro che si iscrivevano all’università nel 2003-4. È un fenomeno che avevamo da tempo denunciato su queste colonne e che non può essere attribuito alla demografia. Non c’è stata, infatti, una diminuzione delle coorti in uscita dalla scuola secondaria negli ultimi 5 anni. Al contrario, il calo è iniziato quando il numero di diplomati stava crescendo e non è solo il numero assoluto di immatricolazioni, ma anche il rapporto fra immatricolazioni e persone con 19 anni di età ad essersi fortemente ridotto negli ultimi anni, dopo essere cresciuto quasi ininterrottamente nel Dopoguerra ed essere raddoppiato dal 1980 al 2005.
Non è neanche colpa delle tasse universitarie. Le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite in termini reali negli ultimi anni secondo i dati raccolti dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario. E poi c’è un tetto alla tasse di iscrizione che, almeno in linea di principio, non può essere superato neanche da atenei strangolati dai tagli dei trasferimenti statali. Sono calate, comunque, le borse di studio. Al Sud in molte regioni solo il 10 per cento degli aventi diritto riesce ad ottenere i fondi per il diritto allo studio. Sono state le prime spese ad essere tagliate dopo il calo dei trasferimenti statali a riprova del fatto che ovunque nell’amministrazione pubblica, al centro come nella periferia, i giovani non contano nulla.
È un calo annunciato, per certi
aspetti attivamente perseguito. Da anni i governi investono sempre meno nell’istruzione. Addirittura nel piano 2020 elaborato dal governo Berlusconi due anni fa si poneva l’obiettivo di tenere saldamente i livelli di istruzione terziaria del nostro Paese, da qui al 2020, al di sotto di quelli della Romania, l’ultimo paese dell’Unione in quanto a percentuale di laureati sulla popolazione. È un disinvestimento in istruzione, dunque, attivamente ricercato, pianificato. Lo stesso governo Monti ha ignorato l’università italiana, abbiamo avuto un ministro ombra, che si è ben guardato dal decidere, rinunciando anche alle proprie prerogative. Ad esempio, nella gestione dei fondi per la ricerca nell’università, si è preferito dare ancora più potere alle baronie accademiche, abdicando al compito di fare graduatorie dei progetti di ricerca a livello nazionale, dove i condizionamenti di gruppi di potere locali sono meno forti.
Il degrado dell’università italiana non è solo una questione di risorse. È soprattutto una questione di incentivi distorti. Si aspettano fondi ministeriali che non arrivano mai in tempo e su cui comunque non si può certo pianificare, dato che le regole cambiano di continuo. Non si possono alzare le tasse e competere per attrarre studenti. Non si può neanche sperare di attrarre una quota sensibilmente più alta dei fondi di finanziamento ordinario, potenziando e migliorando la ricerca accademica.
L’università italiana non ha così saputo rispondere alla sfida dei trienni, quei corsi brevi che avevano creato in molti giovani l’aspettativa di poter acquisire in un arco di tempo non troppo lungo un titolo di studio immediatamente spendibile sul mercato. Come documentato da Daniele Checchi, l’introduzione dei trienni ha creato come una bolla nelle iscrizioni, che è scoppiata non appena ci si è resi conto che i trienni erano solo una
tappa intermedia in un percorso di studio più lungo, volto almeno ad acquisire la laurea magistrale.
Bisognerebbe allora partire soprattutto dal progetto dei trienni per frenare lo spopolamento dell’università italiana. Si potrebbe riformarli, soprattutto nelle sedi periferiche, seguendo il modello delle scuole di specializzazione tedesche. Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in azienda. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e azienda sulla qualità della formazione conferita al lavoratore. Benché retribuito, il lavoratore non avrebbe alcun diritto automatico a entrare in azienda.
In Italia vi sono circa 80 atenei, troppi. Molti di questi non sono in grado di fare ricerca. Non hanno la massa critica per farlo. Ma possono garantire un buon livello di didattica. Ciascuno di questi atenei potrebbe stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio. Le imprese che aderiranno all’accordo dovranno soltanto impegnarsi a prendere nella loro forza lavoro un certo numero di iscritti per anno. Si potrebbe così instaurare una specie di federalismo universitario basato sul rapporto impresa locale e università locale, tenendo conto del profilo della domanda di lavoro nelle diverse regioni. Ad esempio, nel Mezzogiorno ci potrebbe essere una specializzazione nell’industria turistica mentre in alcune regioni settentrionali vi sarebbero corsi di apprendistato universitario in meccanica e scienze biomedicali. È una riforma a costo zero, che non richiede risorse aggiuntive rispetto a quelle attualmente disponibili


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