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ScuolaOggi: Pluralità (non) l’è morta…

Dunque, nonostante la “moral suasion” del Presidente della Repubblica nei confronti del premier per convincerlo ad un uso più sobrio dei decreti-legge, la maggioranza ha proceduto all’approvazione alla Camera dei Deputati –tambur battente – del decreto legge 137 del 1 settembre 2008

16/10/2008
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ScuolaOggi

di Red Rom

…farò di quest’aula un bivacco per manipoli…

Dunque, nonostante la “moral suasion” del Presidente della Repubblica nei confronti del premier per convincerlo ad un uso più sobrio dei decreti-legge, la maggioranza ha proceduto all’approvazione alla Camera dei Deputati –tambur battente – del decreto legge 137 del 1 settembre 2008. Senza un vero dibattito (leggere i resoconti parlamentari per cogliere una vera e propria “pedagogia da bar”), senza considerare l’apporto delle rappresentanze sociali e professionali nel corso delle audizioni di commissione, senza accogliere emendamenti ragionevoli dell’opposizione, senza l’intenzione di costruire un qualche “ponte” con la scuola reale.

Per ragioni di urgenza, dopo 31 anni viene ripristinato il voto numerico in decimi nella scuola di base; per ragioni di urgenza, dopo 18 anni viene accantonata l’organizzazione modulare della scuola elementare e si ripristina l’orario antimeridiano di 24 ore (adottato in via transitoria causa gli eventi bellici dell’ultima guerra mondiale; prima il modello era alla “francese”, con 4 rientri pomeridiani…); per ragioni di urgenza si introduce sperimentalmente una nuova disciplina “cittadinanza e costituzione” senza nessuna garanzia di risorse e tempi dedicati; poi –a contorno- per ragioni di urgenza, le solite “frattaglie” su graduatorie, sanatorie, provvedimenti tampone, quattro lire, ecc.

Articolo 4, maestre addio?

Ma il “piatto forte”, la ratio simbolica dell’intero provvedimento è il ritorno del maestro unico, nemmeno inserito all’ordine del giorno del consiglio dei ministri di fine agosto, ma acchiappato in extremis ex-post, dopo aver fiutato l’onda lunga dei sondaggi d’opinione che si vorrebbero tutti favorevoli (ma come la mettiamo con l’indagine di “Donna Moderna” di qualche giorno fa, che dà il “maestro unico” ad uno striminzito 49% di consensi?).

Diciamoci la verità, l’art. 4 è quasi inutile; già il decreto legge 112/2008 (convertito in legge 133/2008) conteneva un’ampia delega al Governo per modificare l’ordinamento legislativo con semplici regolamenti (questo una volta si chiamava “pieni poteri”, modello argentino…), e tra i criteri esplicitati stava già la “rimodulazione dell’organizzazione didattica della scuola primaria” (ivi compreso –aggiungiamo noi- l’eventuale ritorno al maestro unico).

Saggezza avrebbe voluto, come hanno inutilmente segnalato organismi sindacali e associativi –alcuni anche molto vicini idealmente all’attuale titolare del Dicastero dell’istruzione- che a partire dalla spada di Damocle della manovra finanziaria estiva (meno 8 miliardi di euro per la scuola), si fosse aperto un dibattito “franco e leale” con la scuola italiana, anche con la scuola elementare ed i suoi 250.000 operatori, per argomentare –insieme- su vizi e virtù della nostra scuola di base, sull’esigenza di una seria verifica di quanto fatto in questi vent’anni, ma anche sul perché di una persistente fiducia espressa dai genitori, sui buoni risultati ottenuti in molte indagini internazionali.

Niente di tutto questo, sola la esibita volontà di manifestare una volontà di comando (ben sapendo che i sondaggi con gli operatori scolastici danno i provvedimenti governativi avversati da circa l’80% degli interpellati). Vedremo se il passaggio al Senato del provvedimento porterà un ripensamento nell’ala ragionevole della maggioranza (ma esiste?).

Oltre lo sconcerto emotivo

Lo sconcerto tra le “maestre d’Italia” è forte, non solo per il merito del provvedimento, ma per la totale assenza di ascolto, di dialogo, di comprensione –da parte di chi governa- delle ragioni di chi (le insegnanti, gli insegnanti) tutti i giorni prova a costruire con i bambini un’esperienza positiva (di vita, di relazione e di apprendimento) in classi sempre più numerose, colorate, allegre, ma faticose. Ci si sente espropriati di un bene comune, di un lavoro che molti e molte hanno costruito con generosità e passione, travolti da quel pensiero “sbrigativo” che ha esposto alla pubblica gogna mediatica le maestre giudicate incapaci di gestire una classe (“…ma non ce la fate a gestire una classe da sole, dovete proprio essere in tre!…”).

Ignorare l’interlocutore (“…per me non esiste chi protesta” –dichiara chi governa) è il massimo dello spregio comunicativo, un segnale inquietante del sorgere di una società autoritaria, in cui la democrazia (che è fatta anche di critica argomentata e di confronto delle posizioni) viene messa a repentaglio. Questo è lo stato d’animo della scuola in questi giorni, un clima di impotenza e di rassegnazione, quasi annichiliti dal “peso” degli opinionisti (De Rita, Ricolfi, Galli Della Loggia, Israel, Panebianco) e da improvvidi interventi dei politici (Tremonti si è distinto per un populistico articolo sulla docimologia e le virtù taumaturgiche del 7 meno meno, sul Corriere della Sera del 22 agosto 2008), interventi su cui si sono costruite improbabili motivazioni culturali a quella che resta una durissima manovra economica.

Ridare voce alla scuola reale

La scuola è senza voce e rischia di ripiegarsi su se stessa, aprendo la strada al disimpegno o alla protesta di testimonianza. Un atteggiamento emotivo comprensibile (e bisogna stare vicino alle maestre in questo momento, magari riscoprendo la tenerezza e la dolcezza dei loro gesti, come fa il bel film di V.Cosentino, L’amore che non scordo, Storie di “ordinarie” maestre, DVD, che ripercorre lo straordinario impegno quotidiano di 4 maestre che ben rappresentano le loro colleghe), ma che deve presto trasformarsi in voglia di utilizzare gli spazi a disposizione per costruire comunque una buona scuola elementare.

I decreti estivi e autunnali, di per sé, non sono in grado di cambiare la “pelle” della nostra scuola elementare. Una legge non può essere una camicia di forza che imbriglia la realtà viva, quasi come le braghe messe agli affreschi di Michelangelo per coprire le nudità naturali. La scuola è così perché è un grande fenomeno sociale e civile, rispecchia nel bene e nel male le comunità in cui si inserisce, è presente in oltre 16.000 punti di servizio, coinvolge milioni di bambini e di genitori. Non si cambia con la forza dei decreti, pena il conflitto sociale, il disinteresse, il minimalismo.

Sulla scuola convergono enti locali, forze sociali, genitori, nonni: non è un oggetto manipolabile da pedagogisti vacui, ma una delle strutture portanti della società civile, un luogo di “pacificazione sociale” (perché accoglie universalmente ceti sociali, culture, etnie, religioni) e non si può piegare alla visione ideologica (!?) che gode della momentanea maggioranza delle Camere.

I punti da cui ripartire

Ma, passata l’indignazione (se mai passerà…) ci si deve guardare intorno e capire quali spazi di azione si aprono di fronte ai nuovi provvedimenti legislativi, in particolare la legge 133/2008, con il suo articolo 64, già definitiva e con un piano programmatico alle porte (ma anch’esso dovrà ricevere un parere dalle Camere).

Vediamoli per ora schematicamente:

- intanto gli orari scolastici: la possibilità per i genitori di optare per orari di 24, 27, 30 e 40 ore crea certamente il rischio di una scuola fai da te (a domanda individuale), ma può diventare l’occasione per una straordinaria stagione di dialogo con genitori e famiglie (che per ora è mancata) sull’idea di scuola elementare: non solo quante ore ci chiedete, ma quali conoscenze, quale apprendimento, quale socialità, quali regole, quale valutazione… E le risposte non potranno essere elusive, da parte delle scuole e, soprattutto del Governo; perché non si dovrà trattare solo di contenitori orari, ma di progetti coerenti e unitari di tempo scuola (che vogliamo continuare a mantenere ricchi, europei, di qualità);

- poi l’autonomia organizzativa e didattica: esiste un preciso articolo del Regolamento (DPR 275/99, art. 5, commi 1 e 5) che affida alle scuole il compito di adottare “anche per quanto riguarda l’impiego dei docenti, ogni modalità organizzativa che sia espressione di libertà progettuale…”, “modalità di impiego dei docenti possono essere modificate nella varie classi e sezioni in funzione delle eventuali differenziazioni nelle scelte metodologiche ed organizzative…”. Ci pare che questo articolo sia tutto un programma di libera iniziativa per scuole autonome capaci di pensiero e ben attrezzate sul piano professionale;

- la pluralità docente che già c’è e non può essere tolta: in un terzo delle classi elementari ci sono alunni con handicap e quindi almeno un docente di sostegno, in compresenza. Questi docenti chi sono? Forse un “maestro non unico”? Oppure docenti a pieno titolo inseriti nella vita della classe, contitolari del progetti educativo, con responsabilità non solo verso il disabile ma verso gli altri ragazzi, con possibilità di assegnazione anche di insegnamenti disciplinari (esistono orientamenti amministrativi al riguardo); così pure potremmo dire per i docenti specialisti di lingua straniera (cui il ministro si aggrappa disperatamente, ma allora dovrebbe spiegare perché nel piano di attuazione propone l’azzeramento di tutti gli 11.200 specialisti in tre anni scolastici), o per i docenti di religione cattolica e altre figure specifiche. La scuola di questi anni si è arricchita di presenze perché ha cercato di affrontare le nuove sfide della modernità;

- il tempo pieno che sarà garantito e forse incrementato (dichiarazioni a “porta a porta” dunque ufficiali): d’accordo –è fattibile- ma allora perché nella legge (e nel Piano programmatico) non si è avuto il coraggio di chiamarlo con il proprio nome (tempo pieno, come dice la vigente legge 176/2007 e non con una spregiativa dicitura oraria), di qualificarlo come modello pedagogico unitario e coerente, con doppio organico di docenti, compresenza, rapporti con il territorio, strutture e servizi adeguati. Non pensiamo che l’86% dei genitori che a Milano scelgono il tempo pieno si accontenteranno di un solo docente con tanti pezzetti pomeridiani. Se non si vuole che sia così lo si scriva chiaramente nei decreti e nei regolamenti attuativi, senza aspettare la prossima puntata di un talk show;

- la scuola dell’infanzia: è un punto di forza del nostro sistema educativo, frequentata dal 97% dei bambini anche se non obbligatoria, con pluralismo di gestione, apprezzata dai genitori. Me è eretica rispetto al teorema del maestro unico (…ma come, due docenti a tre anni!). Rasenta l’incoscienza quello che si scrive nel Piano programmatico (orario il più possibile solo al mattino, un solo docente, aumento del numero dei bambini, anticipo senza regola alcuna, eliminazione della compresenza, riduzione del già esiguo personale ausiliario). Che idea si ha di scuola dell’infanzia? Quanto si è lontani dalla scuola vera, viva, di tutti i giorni. Inqualificabile distrazione, se è così. Ma la scuola dell’infanzia è troppo forte per farsi piegare da chi (?) ha immaginato questo pauroso arretramento. Le mamme (e i papà) possono continuare ad esigere gli attuali assetti organizzativi con orario lungo, refezione scolastica, doppio organico e compresenza dei docenti;

- la valutazione non coincide con il solo voto, c’è ben altro. Ci sono i criteri da decidere insieme (il progresso dell’allievo, gli standard di apprendimento, la comparazione dei risultati…); c’è da chiarire che misurare (rilevare dati, osservare, registrare) non è ancora valutare (interpretare, giudicare, compiere un bilancio); che ci sono una valutazione iniziale, una in itinere, una sommativa; che c’è uno scopo da dare alla valutazione nella scuola di base (o vogliamo riprendere a bocciare?); si dovrà parlare di autovalutazione, di rendicontazione sociale… Non crederanno mica al “quartier generale” di aver risolto tutto ripristinando il 6 (ma poi qualcuno spieghi la differenza tra il “sufficiente” di prima ed il “sei” di oggi…). Siamo professionisti, la valutazione è un nostro “ferro del mestiere” da usare con delicatezza, parliamone tra di noi e poi con i genitori (e i ragazzi). Fa parte delle regole di una corretta relazione educativa, senza dover mostrare per forza lo sguardo arcigno del 5 in condotta…

E così potremmo proseguire, con le buone pratiche di una buona scuola (gli apprendimenti fondamentali, l’integrazione, la multiculturalità, i laboratori, le uscite, la cura educativa, la continuità). Facciamo vedere a tanti queste buone pratiche, descriviamole, raccontiamole, con dignità, con serenità, senza urlare, con il sorriso.

Il tempo ci darà ragione.


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