ScuolaOggi: Altro che apartheid
di Fiorella Farinelli
Di apartheid non è proprio il caso di parlare. E neppure di precipitarsi in improprie analogie con la cacciata degli ebrei dalle scuole del regno. Se non altro perché, almeno per il momento, le classi entro cui relegare gli allievi di origine straniera sembrerebbero riservate ai soli che approdano nelle nostre scuole senza una sola parola di italiano ; e dovrebbero inoltre essere provvisorie, visto che si chiamano “di inserimento” e che erano state definite classi “ponte” anche nella versione originaria. Ciò non toglie che l’approvazione alla Camera della mozione leghista sia un fatto grave, e pericoloso. Da diversi punti di vista : perché può aprire la strada a stravolgimenti di una normativa scolastica finora illuminata ; perché allinea il parlamento – che è tutt’altra cosa rispetto al consiglio comunale di qualche luogo di provincia – alle pulsioni di quella parte del paese che i problemi li vuole risolvere mortificando chi li ha , e scaricandogliene addosso il peso. Ma soprattutto per il fortissimo valore simbolico che nei processi di integrazione ha avuto sempre e ovunque il libero accesso delle minoranze alla scuola di tutti . Bisogna dunque che chi si oppone a quella mozione metta al centro delle sue preoccupazioni i sentimenti di umiliazione che nella popolazione immigrata e nei suoi figli si produrrebbero immancabilmente, e forse si stanno producendo al solo annuncio, se dovessero seguirne dispositivi di effettiva esclusione. Ma anche le inquietudini, più o meno motivate , di settori consistenti dell’opinione pubblica ; e i timori, anche se spesso non ragionevoli, di tanti genitori italiani. Anche per questo si sarebbe dovuta evitare ogni semplificazione enfatica ed allarmistica, assumendo invece l’atteggiamento responsabile di chi conosce l’entità e la qualità dei problemi e che, proprio per questo, è in grado di individuare come si deve fare per superarli ( operazione, quest’ultima, tutt’altro che faticosa, vista la ricchezza di esperienze positive delle nostre scuole migliori ). Ricorrere ai fantasmi, dare per certo che per il fatto di essere tra noi hanno già vinto, offre solo argomenti a chi rinfaccia all’opposizione un ingombro ideologico che oscura i dati di realtà. Facilita un pericoloso rovesciamento delle parti . Rafforza l’idea, già fin troppo diffusa, di una sinistra parolaia, interessata più alla polemica politica che al superamento delle difficoltà effettive. Il “politicamente abietto”, in effetti, non si può contrastare solo con il “politicamente corretto”.
Sconcerta, intanto, che alle insidiose generalizzazioni del discorso leghista – come se tutti gli studenti di origine straniera costituissero un problema insostenibile per la nostra scuola pubblica – non si siano finora opposti i numeri che danno conto di una realtà diversa, più articolata, in evidente evoluzione. Dice qualcosa che più del 71% degli iscritti “non italiani” alle scuole per l’infanzia sia nato in Italia, e quindi sia nelle condizioni di imparare la lingua di base insieme con i coetanei italiani prima ancora di entrare nella primaria ? Magari non una lingua ricca e corretta come quella dei figli degli italiani più colti –soprattutto se in casa si parlano solo altre lingue - ma certo sufficiente ad affrontare il primo giorno di scuola in condizioni di non disperante minorità . Le “seconde generazioni”, quelle dei piccoli nati qui o arrivati prima dell’età scolare sono in crescita esponenziale, basta ad averne un’idea l’ ISTAT e le elaborazioni della Fondazione Agnelli . Gli insegnanti lo sanno, e sarebbe ora che anche l’opinione pubblica – e il ceto politico – non ignorasse né questo fenomeno né il fatto che sono sempre più numerosi i ragazzi stranieri che si iscrivono alla scuola superiore, che sono determinati ( ben più dei nostri ) a utilizzare l’istruzione come opportunità di riscatto sociale, che la concludono con successo, e che riempiono – nel Centro-Nord – i buchi di quell’istruzione tecnica e professionale così importante per le nostre imprese, e così disertata invece dai nostri spensierati liceali. Non tutti i figli dell’immigrazione, del resto, vengono da mondi che ignorano l’educazione scolastica , molti sono figli di diplomati e laureati, ancorché badanti e muratori, disposti – se appena possono – a investire nell’istruzione lunga. E molti, anche se non dispongono ancora di competenze linguistiche complesse , sono però plurilingue, una dote importante per apprenderne rapidamente altre. I problemi però ci sono, naturalmente, e riguardano soprattutto i minori ricongiunti, spesso completamente “non italofoni”, e di un’età e con esperienze di sradicamento che li rendono meno disponibili e meno capaci di un facile inserimento. Ma quanti sono ? Quanto è esteso il settore che nell’immaginario collettivo viene spesso identificato con il tutto ? Negli ultimi tre anni i minori ricongiunti sono stati tra i 45 e i 50.000 l’anno, meno del 10% del totale degli studenti di origine straniera, pochissimi se ne leggiamo la presenza nei singoli istituti scolastici . Non si fanno “classi”, con questi numeri, e se si dovessero fare ( miste di cinesi, pakistani, senegalesi, ucraini , latinoamericani ? ), sarebbero un disastro dal punto di vista dell’apprendimento linguistico : perché una lingua si impara non solo perché c’è un insegnante dedicato ma quando, in full immersion, è il solo modo per comunicare con altri con cui è importante – e si desidera – entrare in relazione. Perciò, quando a una scuola capitano questi casi, si fa tutt’altro: non rigide quarantene che mortificano , avviliscono, non assicurano risultati positivi , ma corsi e percorsi di dentro/fuori rispetto alle classi di inserimento ( cui partecipano spesso studenti stranieri già familiarizzati con la lingua e talora anche italiani ) , di durata variabile secondo i bisogni, con l’utilizzazione, per apprendere quello che serve a un pieno inserimento, dei linguaggi “universali” ( matematico, informatico, tecnico-operativo, disegno, musica ecc. ) e valorizzando , quando ci sono, le lingue veicolari. Funziona, quando ci sono insegnanti esperti di lingua2 e , nei casi più difficili, mediatori linguistici non improvvisati. Il problema è come trasferire le esperienze di successo delle scuole migliori a quelle più arretrate, e come dotare le scuole e i territori delle risorse e degli strumenti necessari : con un’attenzione particolare per le aree dove il problema è più recente ( in Campania, per esempio, gli stranieri a scuola sono ancora meno dell’1,5%, a fronte di una media nazionale del 6,8% e del 12% di alcune province del Nord ). In numerosi paesi europei sede di immigrazione anche più imponente della nostra, si attivano anche opportunità aggiuntive : corsi festivi ed estivi, corsi per i genitori, utilizzo della televisione e dell’e-learning , mobilitazione delle biblioteche civiche, delle università popolari, dell’articolato mondo del privato sociale. Tutte iniziative che sarebbe ora di mettere in campo anche da noi, e in modo meno effimero e discontinuo di quel che accade. Ma è nelle scuole la sede di accertamento delle competenze linguistiche in ingresso, della progettazione e dell’organizzazione dei percorsi, della valutazione dei risultati e delle decisioni conseguenti. Ed è viceversa proprio qui, nella pretesa di decidere centralisticamente se, quando, con quali strumenti e modalità le scuole debbano inserire i ragazzi nelle classi, con quali percentuali rispetto agli italiani (e perfino entro che data accettare le iscrizioni, con vistosa violazione di ogni regolamento sull’obbligo di istruzione ) , quello che maggiormente inquieta della mozione approvata dal Parlamento, e degli obiettivi illustrati dal capogruppo leghista alla Camera, onorevole Cota. Inquietante, con tutta evidenza, non solo per il ruolo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Tanto più mentre lo stesso Parlamento approva un micidiale programma di depauperamento dell’offerta educativa della scuola pubblica, delle sue risorse economiche e professionali. E mentre nel “piano programmatico “ di Gelmini si tagliano, nelle nostre scuole per adulti, proprio i corsi di apprendimento dell’italiano e di educazione alla cittadinanza frequentati ogni anno da quasi 200.000 stranieri, tra cui molti sono genitori di bambini e ragazzi in età scolare.
Il resto, di enorme portata per il futuro del paese, è sullo sfondo. Ne fanno parte tanti elementi, tra cui la straordinaria sottovalutazione in questi ultimi venti anni delle politiche di integrazione della popolazione immigrata, che si rovesciano anche su una scuola che non può agire con successo senza la condivisione del contesto sociale e culturale in cui è inserita, il sostegno degli Enti Locali, l’alleanza delle famiglie italiane e non . Le regole che assicurano il successo dell’integrazione scolastica degli stranieri sono tre : un’intenzionalità educativa intelligente in scuole professionalmente attrezzate ; una comunità nazionale e locale favorevole ; un’aspettativa positiva rispetto alle potenzialità di apprendimento dei ragazzi stranieri. Non ci siamo ancora, purtroppo. Ma altrettanto pericoloso è stato, in tutti questi anni, non solo l’oscuramento sotto il velo di una retorica buonista dei problemi veri che stava affrontando la scuola ( e delle misure indispensabili a risolverli ), ma anche dei vantaggi che , a certe condizioni, possono derivare a tutti, italiani compresi, dal crescere e dall’apprendere in contesti educativi interculturali. Non è questione di solidarietà nei confronti dei “diversi” né di dare per scontato che ogni differenza sia necessariamente e sempre una risorsa. Il vantaggio può venire se la scuola è capace di sollecitare a riflettere su ciò che divide e su ciò che unisce, di formare a quel relativismo dialogante che è il sale dell’educazione alla convivenza interculturale, di far guardare alle persone e al mondo con approcci non chiusi e non provinciali. La scuola, ma anche quello che c’è fuori, i media, le istituzioni, il discorso pubblico, la politica. E anche qui non ci siamo ancora. Ma gridare all’apartheid non colma i deficit e non risolve i problemi, rischiando anzi di aggravarli. La lungimiranza che ci serve dovrebbe usare altri codici, ed altri argomenti. Perché non può venire niente di buono, per il nostro paese, da “seconde generazioni” che continuassero come ora in tanti casi ad uscire dalla scuola con il peso di forti ritardi scolastici e di competenze insufficienti, che dovessero continuare ad essere orientati indipendentemente da quello che sono e che valgono solo in alcuni indirizzi e tipologie scolastiche, che la scuola dovessero viverla come un’esperienza mortificante. O ancora che, come è successo in altri paesi, dovessero vedere tradite, nell’impatto con il mondo del lavoro, le speranze di inserimento sociale e professionale promesse dall’istruzione. La partita è ancora aperta, ma ci sono parecchi segni che bisognerebbe giocarla meglio.
Fiorella Farinelli |