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Presidi, supplenti e stage: eppur la scuola si muove (l'università invece no)

È un bene che l’istruzione sia tornata al centro del dibattito politico. Ma dall’esclusione dei supplenti di seconda fascia al nuovo sistema di calcolo dell’Isee, sono diverse le materie nella quali la riforma non arriva alla sufficienza

23/12/2015
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Corriere della sera

Orsola Riva

Che anno è stato, il 2015, per la scuola? Un buon anno o un anno cattivo? Forse l’immagine più giusta è quella cara al premier Renzi del bicchiere pieno a metà. È un bene che la scuola sia tornata al centro del dibattito politico e va riconosciuto a questo governo il merito di aver fatto un investimento economico importante — il primo da anni — sulla scuola: un miliardo di euro per il 2015, che diventeranno tre a regime. Buona anche l’intenzione: cercare di svuotare in più possibile le graduatorie dei precari storici sanando la stortura tutta italiana dei contratti a termine replicati all’infinito. Un supplizio per i diretti interessati con conseguenze drammatiche anche per i nostri figli, privati della necessaria continuità didattica a causa della girandola dei prof senza posto fisso.

Tutto bene, quindi? Purtroppo no. L’operazione che si è conclusa da poco con la messa in servizio dell’ultima tranche di docenti stabilizzati, partiva con un handicap grave: l’esclusione dei cosiddetti supplenti di seconda fascia, trattati dal governo come docenti di serie B solo perché non rientravano nelle graduatorie provinciali chiuse dal 2007. Un’ingiustizia nei loro confronti ma — daccapo — anche un danno per i ragazzi perché, come si è visto al termine dell’ultima fase di stabilizzazioni, fra i precari storici mancano diverse figure indispensabili per il buon funzionamento della scuola come per esempio i docenti di matematica alle medie (9 in tutta Italia su 47.465 nuovi prof), mentre ne abbondano di inutili come i dattilografi, materia ormai scomparsa dai programmi. Anche se, va detto, il governo è corso ai ripari decidendo di indire per il 2016 un concorso per 60 mila posti riservato proprio ai docenti abilitati delle graduatorie di istituto.

Intanto però anche quest’anno i presidi hanno dovuto ricorrere a decine di migliaia di supplenti per colmare i buchi nell’organico. Con buona pace della fine della «supplentite» promessa dal governo. Peggio: siccome molti degli 8.532 docenti immessi in ruolo nella penultima fase venivano dal Sud ma avevano vinto una cattedra al Nord, di fronte all’accusa (francamente sproporzionata) di deportare migliaia di prof lontano dalle proprie famiglie, il governo ha deciso di concedere un anno di moratoria. Per quest’anno scolastico i vincitori di cattedra possono restare vicino a casa e così nel frattempo il loro posto dev’essere assegnato ad altri supplenti. Tanto che, alla fine, il mega piano di assunzioni del governo (in tutto sono entrati in ruolo quasi 90 mila nuovi docenti), invece di agevolare il lavoro dei presidi, lo ha reso paradossalmente ancora più complicato.

Per non parlare degli stage di alternanza scuola-lavoro da quest’anno obbligatori non solo per gli istituti tecnici ma anche per i licei: una novità assolutamente positiva per i ragazzi (anche se fin troppo enfatizzata dai suoi promotori come la soluzione di tutti i mali della scuola) ma che, partita in fretta e in furia subito dopo l’estate, per molti presidi si è trasformata in un autentico rompicapo, visto che toccava a loro trovarsi l’azienda o il museo, la casa editrice o l’ospedale disposti ad aprire le proprie porte ai ragazzi del triennio per un paio di settimane l’anno. E davvero si fatica a capire come potranno a giugno, quegli stessi presidi, assegnare quei duecento milioni di euro che il governo ha messo sul piatto per premiare i docenti migliori sbandierandoli come la vera novità culturale contenuta nella legge di riforma della scuola. Dovevano segnare la fine di un egualitarismo al ribasso per cui i prof vengono pagati tutti poco per lavorare poco e invece si sono già tradotti, prima ancora di essere spesi, nella rottura di quel clima di fiducia che è indispensabile all’interno delle scuole. Con i presidi accusati in anticipo di una gestione clientelare dei fondi per premiare i docenti a loro più graditi. E i sindacati sul piede di guerra per essere stati completamente bypassati dal governo che non ha voluto riaprire il tavolo del contratto bloccato da 6 anni.

E pazienza se le statistiche internazionali come l’Ocse Pisa dimostrano come, ovunque nel mondo, per selezionare i docenti migliori sia necessario anzitutto pagarli in modo adeguato. Anche se il premier Matteo Renzi, scottato dalla partecipazione oceanica allo sciopero unitario dello scorso 5 maggio, ci ha messo una pezza mettendo sul tavolo 500 euro cash per tutti i prof indistintamente, la cosiddetta card per l’aggiornamento professionale, con cui si è garantito un autunno tutto sommato tiepido rispetto alle premesse di prima dell’estate. Anche in questo caso, però, con buona pace però del principio del merito.

Sul fronte degli studenti, poi, ci sono state le solite manifestazioni e occupazioni stagionali ma anche per loro (per quelli che compiono 18 anni) è arrivata la promessa di 500 euro da spendere in approvvigionamenti culturali (libri, biglietti di teatro, concerti…).

Mentre la grande assente dal dibattito politico resta l’università. Prima dell’estate il governo aveva promesso di mettere mano a una sorta di Buona Università sulla falsa riga della Buona Scuola, ma finora non se ne è fatto nulla, al di là dell’annuncio televisivo — più d’effetto che di sostanza — di un concorso internazionale per richiamare 500 cervelloni italiani e stranieri nelle nostre università. L’Italia resta sconsolatamente ultima, ma proprio ultima, per numero di laureati (siamo fermi al 24 per cento fra i giovani 25-34enni contro una media Ocse del 41 per cento). Negli ultimi dieci anni c’è stata un’erosione drammatica di iscritti (meno 20 per cento) a causa dell’effetto combinato della crisi e dell’erosione del diritto allo studio. Ma le risorse investite sono ferme al palo (0,9 per cento del Pil, contro l’1,2 per cento della Germania, l’1,4 per cento della Francia e addirittura il doppio, 1,8 per cento, in Gran Bretagna).

A peggiorare la situazione ci si è messo anche il nuovo sistema di calcolo dell’Isee, che misura la ricchezza delle famiglie per l’accesso ai servizi di pubblica utilità. Doveva servire a tagliar fuori i cosiddetti furbetti dell’università (quelli che si dichiaravano poco più che nulla tenenti e poi avevano la Ferrari in giardino), ma ha finito per escludere anche chi ne aveva realmente bisogno. Benché, anche in questo caso, il governo sia corso ai ripari inserendo in fretta e in furia in un emendamento della legge di Stabilità 55 milioni di euro in più per il diritto allo studio. Che non bastano però certo ad assicurare una borsa a tutti gli aventi diritto, soprattutto al Sud sempre più a rischio desertificazione. Chi può, chi ha una famiglia che può permetterselo alle spalle, fa le valigie e va a studiare al Nord (parliamo di uno studente su tre), gli altri rinunciano. E così si allontana sempre di più ogni possibilità di rilancio non solo del Meridione ma del Paese tutto. Come ha detto a Corriere.it Edoardo Bennato ospite della Leopolda: «Il problema dell’Italia è far diventare Reggio Calabria come Reggio Emilia. O ci riesce Renzi o ci vuole uno con la bacchetta magica». Parafrasando Bertolt Brecht, verrebbe da dire: sfortunato quel Paese che ha bisogno di maghi.


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