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Perché la regionalizzazione della scuola è costituzionalmente borderline

Questo è un tema difficile, che non può essere affrontato con facili proclami.

28/06/2019
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ROARS

Carlo Scognamiglio

 Commenti

1. Genesi e sostanza dell’autonomia differenziata

L’accelerazione politica del processo di decentramento amministrativo sollecita un ritorno alla discussione sul tema del federalismo, e solleva l’allarme sulla sua compatibilità costituzionale, poiché tra le tante materie su cui si intendono distribuire le competenze, c’è anche l’organizzazione del sistema di istruzione, tradizionalmente legato alla questione unitaria. Questo è un tema difficile, che non può essere affrontato con facili proclami. A poco serve urlare all’incostituzionalità o alla rottura dell’identità nazionale. Occorre ragionare con calma. Altri Stati hanno sistemi di istruzione organizzati regionalmente, e l’Italia stessa ha già delegato agli enti regionali molte funzioni. Bisogna capire, in questo caso, cosa significa e come si sviluppa la questione politica dell’autonomia differenziata. Proviamo a fare un passo indietro, per inquadrare correttamente il tema.

L’Italia ha una tradizione comunale, non regionale. Il Risorgimento aveva condotto all’agognato e difficile obiettivo del superamento di una frammentazione territoriale tradizionalmente percepita come il principale fattore di debolezza dell’Italia. Lo Stato unitario aveva certamente aggregato all’antica istituzione comunale l’amministrazione periferica prefettizia, le Province, con funzioni prevalentemente tecniche. Nel 1865 Minghetti propose la costituzione di Regioni amministrative, ma la proposta venne bocciata. Si trattava di un progetto che – si diceva – metteva a rischio il senso di unità nazionale già fragile. Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare, nel primo dopoguerra, ripresero la questione, in vista di un’auspicata autonomia regionale. Ma poi ebbe inizio il ventennio fascista, contrario alle autonomie locali, subordinando anche gli istituti comunali alla tutela dello Stato centrale. Per questa ragione, secondo lo storico Claudio Pavone, “la Resistenza è stata pressoché unanime, nelle sue prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali”. Tuttavia, ciò non implica che ci fosse un chiaro progetto politico federalista, ma va letto nella cornice dell’antifascismo. L’istanza era in primo luogo quella democratica, e secondariamente autonomistica. Alla fine della seconda guerra mondiale, le posizioni più distintamente federaliste si possono trovare forse in esponenti liberali o nel Partito d’Azione. Le forze di sinistra non mostravano entusiasmo per il progetto di articolazione regionalistica, mentre la DC muoveva in quella direzione, ma con una sorta di prudenza. Nel quadro teorico della Democrazia Cristiana infatti occorreva costruire un tessuto democratico attraverso una serie di corpi rappresentativi della società, non solo politici, che avrebbero rappresentato la persona nelle diverse sfere della sua esistenza, familiare, lavorativa o religiosa. L’autonomia federale si riferisce semplicemente alla dimensione del cittadino, sebbene incardinata su una gradazione amministrativa. La DC aveva proposto, senza riuscire in questo obiettivo, anche un Senato rappresentativo delle categorie professionali e delle Regioni, sempre nell’ottica della gradazione della pertinenza costituzionale dall’individuo alla comunità.

Che dire, allora, delle Regioni a statuto speciale? Va precisato che le autonomie valdostana e siciliana precedono nettamente la discussione sulla Costituzione. La Valle d’Aosta, già nel periodo resistenziale, pareva destinata a processi di annessione con la Francia o la Svizzera, e parte dei combattenti di quella regione prefiguravano una completa autonomia. Di fatto con i decreti legislativi luogotenenziali del 7 settembre 1945 si riconosceva, insieme alla riconduzione di tale area nel perimetro dello Stato italiano, un sistema importante – sebbene ancora vago – di autonomie. Per quel che concerne la Sicilia, che aveva comunque una tradizione storica indipendentista più robusta, e che guardava con interesse al precedente della Catalogna, che nel 1931 aveva ottenuto l’autonomia e un proprio Statuto, una parte importante della classe dirigente, primo fra tutti Luigi Sturzo, era convintamente autonomista. Molti erano i separatisti, ragion per cui i costituenti non poterono fare altro che prenderne atto e adeguarsi a tale istanza. Nel luglio del 1943 il Movimento indipendentista siciliano aveva proclamato la decadenza della monarchia sabauda nell’isola e la formazione di una Repubblica siciliana indipendente.

Nel dibattito generale sul progetto di Costituzione, la posizione dei comunisti è più cauta, ed è ben testimoniata dall’intervento di Togliatti (11 marzo 1947):

“l’unità nazionale è un bene prezioso, soprattutto per un Paese il quale la possiede da poco tempo. Da quanti anni siamo noi un Paese nazionalmente unito? Da 70 o 80 anni, non più, e per arrivare a conquistare questo risultato abbiamo impiegato secoli di lotta; di travaglio, di sofferenze, di sconfitte e di umiliazioni. Ci sconfissero e umiliarono tutti o quasi tutti i popoli vicini perché non eravamo uniti, perché non avevamo un esercito e uno Stato unitari, mentre essi li possedevano da secoli. Dobbiamo stare attenti a non perderla ora, questa unità. […]

Pur essendo unitari, siamo però d’accordo per la concessione di un regime particolare di larga autonomia a determinate regioni, e cioè alla Sicilia, alla Sardegna e alle zone di lingue e nazionalità miste. Nelle grandi isole italiane mediterranee si sono creati infatti una situazione particolare economica e politica e un particolare clima psicologico che impongono quella soluzione. Qui deve quindi esser concessa l’autonomia più larga. A questo non facciamo nessuna obiezione in questo campo, anzi siamo all’avanguardia della lotta per la libertà dei popoli siciliano e sardo in un’Italia democratica. Quando però si tratta di tutto il resto del territorio nazionale, lasciateci riflettere e riflettiamo assieme. Misure di decentramento amministrativo, formazione di enti regionali che permettano, perché meglio e direttamente collegati col popolo, tanto un più ampio e sicuro sviluppo democratico, quanto la formazione di nuovi quadri dirigenti della Nazione su una scala locale: tutto questo è considerato da noi con simpatia e accettato. Ci preoccupano però due cose: da un lato una parte delle norme che avete scritto in questo progetto, dall’altro lo spirito e gli argomenti coi quali le presentate […] La verità è che il nostro Paese non è economicamente e socialmente, tutto allo stesso grado di sviluppo […] corriamo il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti noi e deve essere la base di tutto il progresso politico e sociale del Paese: l’unità politica e morale della nazione”.

La posizione comunista era dunque aperta alla concessione di alcune autonomie, ma diffidava di una moltiplicazione eccessiva degli enti locali. Soprattutto, il timore era quello di non poter più tenere insieme aree del Paese con ritmi di sviluppo troppo differenti tra loro. Non solo da un punto di vista industriale, ma l’esigenza percepita era anche quella di garantire una tenuta “politica e morale”. Occorre ricordare, inoltre, che l’Italia fino a tre anni prima era ancora divisa in due dal fronte di guerra. Una situazione di naturale tendenza alla frammentazione, evidentemente.

Alla fine del dibattito la questione rimase in sospeso. La difficoltà di sviluppare e sciogliere questi nodi spiegano inoltre le ragioni del ritardo con cui gli istituti regionali sono stati definiti, condividendo il destino di altri passaggi assai discussi della Costituzione, come il referendum o la Corte costituzionale. Soltanto negli anni Settanta vennero formalmente istituite le Regioni, mentre la riforma del titolo V risale a circa vent’anni fa, con l’introduzione di forti elementi di federalismo. La riforma fu approvata da una maggioranza di centro-sinistra, ma su pressione del crescente movimento autonomista interpretato dal partito della Lega Nord, guidato allora da Umberto Bossi. Adesso, che la Lega è stabilmente al governo, con un peso non comparabile alle esperienze passate, sta per essere compiuto un nuovo passaggio, che sembra spingere verso la determinazione nuovi e scomposti livelli di autonomia, determinando quello che è stato definito “federalismo asimmetrico”.

Grazie alla riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce importanti autonomie agli enti regionali, si prevendono nell’art. 116 ulteriori allargamenti nella possibilità di autogestione di diverse materie concorrenti tra Stato e Regioni, ma anche precedentemente assegnati alla sola gestione statale. Le materie sono elencate nel terzo comma dell’art. 117, e tra esse, oltre alla gestione dei beni culturali o delle politiche ambientali, compare anche l’organizzazione del sistema di istruzione. Tuttavia, secondo alcune interpretazioni, in questo comma ci si riferisce comunque a livelli di autonomia inferiori rispetto a quelli previsti per le regioni a statuto speciale, quindi una sorta di “autonomia minore”.

Nell’ottobre del 2017, Lombardia e Veneto, cui si sarebbe aggiunta successivamente anche l’Emilia Romagna, hanno indetto delle consultazioni popolari all’interno delle proprie regioni, per ottenere una legittimazione di base alle loro richieste. I quesiti referendari sono stati definiti ammissibili (proprio perché coerenti con la riforma del titolo V) e l’esito ha chiaramente incoraggiato i governatori di quelle Regioni a premere sullo Stato centrale per spingere ulteriormente sulla strada dell’autonomia. Il governo Gentiloni ne prese atto, e firmò con quelle amministrazioni delle pre-intese, il cui iter fu però interrotto dalla fine della legislatura. Il contratto di governo firmato poi da Lega e M5S, richiama espressamente l’esigenza di proseguire in questa direzione “devoluzionista”, ragion per cui le trattative con lo Stato centrale sono state riaperte, sebbene fino a questo momento si sia lavorato su bozze in gran parte non esposte a un dibattito pubblico. Nel febbraio del 2019, anche la Regione Campania ha chiesto l’autonomia su alcune materie (tra cui l’istruzione), e così hanno iniziato ad aggregarsi altri governatori, e persino il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha evocato la necessità di ulteriori gradi di autonomia per l’amministrazione cittadina.

Bisogna precisare che non tutte le Regioni chiedono le competenze di gestione sulle medesime materie. Solo Lombardia e Veneto esigono il massimo possibile (il controllo in proprio delle 23 materie in questione). L’Emilia Romagna ne chiede solo 15. Bisognerà poi vedere cosa accadrà per le altre Regioni. Per questo motivo si parla di autonomia differenziata, o federalismo asimmetrico.

2. Il nodo dell’istruzione

Tra le molte materie in questione, certamente il punto strategico concerne la gestione dell’istruzione. Dopo l’amministrazione dei servizi sanitari, già attribuita alle Regioni, è forse la competenza centrale più delicata nel processo di devoluzione. L’autonomia in materia di istruzione ha implicazioni economiche, organizzative, didattiche e occupazionali. Le Regioni del Nord, in particolare, ambiscono a gestire in proprio l’assegnazione dei fondi alle scuole paritarie, a utilizzare in modo indipendente i fondi per il diritto allo studio (anche universitario), a differenziare sulla base di esigenze territoriali l’offerta formativa, e ad articolare, prescindendo dalle indicazioni oggi nazionali, quel che resta dei percorsi di alternanza scuola-lavoro (già superati per il vero sia da un punto di vista economico che nel nome stesso).

Più delicata è la faccenda dal punto di vista occupazionale. Le Regioni otterrebbero infatti la possibilità di ridefinire la retribuzione del personale scolastico, di gestione del sistema di reclutamento, di coordinare (eventualmente limitandolo) il trasferimento tra regioni, di definire il fabbisogno di personale e provvedere alla redistribuzione dello stesso, e di nominare i dirigenti degli uffici scolastici e i dirigenti scolastici. Secondo i più pessimisti, si giungerebbe rapidamente a un sistema di nomine “politiche”, ma questo non è detto, sebbene in Italia non sia cosa improbabile. Parrebbe che in alcune regioni si prefigurerebbe una riforma degli organi collegiali. Rispetto all’inquadramento contrattuale si sta parlando di opzioni differenziate poste sul tavolo. Una possibilità sarebbe quella di proporre a chi è già di ruolo l’opzione di passare al contratto regionale, collocando invece in questa formula tutti i neoassunti, e di regionalizzare i contratti a tempo determinato di tutti i precari non abilitati. Rispetto ai precari abilitati, invece, si ipotizzerebbero solo concorsi regionali, che tuttavia non sono una novità, in quanto già da alcuni anni i concorsi nel settore istruzione, fatto salvo quello per Dirigenti scolastici, sono regionali. Su questo dunque nulla di nuovo, a meno che non si ipotizzi l’istituzione di un’abilitazione regionale, il che parrebbe un dispositivo privo di ogni possibile logica, che non sia riconducibile a una regressiva pulsione identitaria.

Alcuni detrattori dell’autonomia differenziata, proprio pensando al decentramento dell’istruzione, parlano di incostituzionalità. Con quest’accusa ci si riferisce all’evidente possibilità di disparità dell’offerta formativa in base alla residenza. Il sistema di istruzione dovrebbe invece essere unitario, con accesso garantito a tutti dallo spirito repubblicano e dal dettato normativo. A rigore, l’articolo 117 – riprendendo l’articolo 33 – riconduce alla legislazione esclusiva dello Stato, come ambito di competenza, le “norme generali sull’istruzione”, che in sostanza consistono nella definizione degli indirizzi di studio, dei cicli scolastici e delle loro finalità, nella regolamentazione dell’accesso al diritto-dovere di istruzione, nella definizione dei nuclei essenziali dei piani di studio, nella regolamentazione degli esami di Stato, nella definizione degli standard minimi formativi, nella valutazione complessiva del sistema e dei sistemi di valutazione degli studenti (rendimento e comportamento), nel modello di alternanza scuola-lavoro, e nei principi generali per la formazione dei docenti.

Alle Regioni è finora concessa una competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale, ma anche una competenza nella deliberazione della programmazione dell’offerta formativa e del dimensionamento della rete scolastica.

La Costituzione fa riferimento infatti al servizio nazionale della pubblica istruzione. Una sentenza della Corte Costituzionale (290/1994), in merito alle competenze di Stato e Regioni, è su questo abbastanza chiara: “soltanto l’ente rappresentativo dell’intera comunità nazionale è in grado di dettare le regole generali volte ad assicurare, senza distinzione di aree geografiche, un trattamento scolastico in condizione di eguaglianza a tutti i cittadini”. Evidentemente, un passaggio di tale prerogativa alle amministrazioni locali implicherebbe una sostanziale riforma costituzionale, e l’iter dovrebbe essere – come sappiamo – molto più complesso.

Una via d’uscita da questa difficoltà, secondo le Regioni che chiedono l’autonomia, consisterebbe nella definizione di livelli standard garantiti, con elementi di programmazione didattica omogenei, a partire dai quali articolare le differenze locali (ma in fondo questo esiste già: l’autonomia scolastica prevede da tempo la possibilità di interpretare con margini discreti di autogestione, per i singoli istituti scolastici, le esigenze e le peculiarità dei territori). Le Regioni potrebbero ulteriormente caratterizzare la propria organizzazione scolastica. Perché questo dovrebbe apparire incostituzionale? Il rischio esiste, ma in realtà non pare legato al passaggio formale in sé, bensì a un anello ancora non definito della catena, cioè quello relativo alla gestione dei fondi. Cosa accadrebbe se una Regione potesse giovarsi di finanziamenti vistosamente superiori a quelli di altre? Probabilmente si creerebbero aree del territorio in cui il valore del titolo di studio assumerebbe immediatamente, sul mercato del lavoro, una maggiore spendibilità. E questo in parte già avviene, come effetto dell’autonomia. Però se qualche Regione si distanziasse troppo dalle altre, con standard di apprendimento molto elevati, ciò porrebbe non più di fatto – ma di diritto – alcuni cittadini in una condizione di svantaggio rispetto ad altri.

3. Il residuo fiscale.

Il vero problema è infatti, tanto per cambiare, legato alla questione dei fondi. Le tre Regioni in cui la produzione registra i livelli più alti, e quindi con un reddito pro-capite e gettito fiscale più elevati, chiedono di ricevere indietro dallo Stato non meno di quanto versano (in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si produce il 40% del PIL nazionale). Non a caso si è parlato di “secessione dei ricchi”. Va detto che per il momento lo Stato non ha accolto tale istanza. Secondo gli accordi informali fin qui resi noti, il primo anno sarebbero trasferite alle Regioni esattamente le stesse risorse che oggi lo Stato spende per quei territori in relazione alle funzioni in oggetto. Dall’anno successivo si dovrebbero individuare i criteri di ripartizione. Se al momento si propone di ricorrere al “costo storico”, cioè restituire esattamente quanto oggi lo Stato spende pro-capite per quelle aree, per il futuro le ipotesi sono diverse, con riferimento a “costi standard” (facendo cioè una media tra ciò che lo Stato distribuisce pro capite in tutte le regioni, il che avvantaggerebbe i territori del Nord, che oggi ricevono pro-capite meno del Mezzogiorno), o alla restituzione del residuo fiscale, cioè riportando in quelle Regioni almeno il 90% di quanto esse versano attualmente allo Stato in tributi. Se oggi in Lombardia, ad esempio, vengono restituiti in 2/3 di quanto i cittadini lombardi versano, in Calabria lo Stato spende più del doppio di quello che incassa. Posta così, la questione sembrerebbe delineare uno stato di evidente ingiustizia.

In realtà, come ha dimostrato Gianfranco Viesti in un documentato articolo, pubblicato su Roars il 4 maggio 2019, la questione è molto più complessa. Al Sud la spesa “per studente” è certamente più alta, ma per diverse ragioni, non riconducibili tecnicamente al concetto di “spreco”. Nelle regioni meridionali infatti l’età anagrafica del corpo docente è più elevata rispetto a quelle del Nord, dove numerosi giovani insegnanti trascorrono i primi anni della carriera per poi ottenere il trasferimento al Sud. Il dato incide naturalmente costo dei salari, decisamente più basso per i precari e gli insegnanti più giovani. Se in Calabria i docenti con età inferiore ai 45 anni sono l’80,6%, in Lombardia siamo al 61,3%. Una bella differenza. Inoltre, territori come la Calabria ospitano numerose scuole di collina e montagna (non paragonabili alla realtà padana), in cui sussistono molte classi, specialmente alle elementari, poco numerose. Infatti, in Lombardia le classi composte da meno di 15 alunni sono solo l’ 11%. In Calabria raggiungono il 41%. Eliminando queste e altre sottili differenze di “struttura”, come ad esempio il numero di insegnanti di sostegno, diverso di regione in regione, possiamo riguardare il quadro generale in altro modo. Se tralasciamo il caso eccezionale della Calabria, dove molte sono le classi poco numerose, “è proprio la Lombardia ad avere la spesa più elevata; in Veneto è più contenuta, ma ancora superiore a quella pugliese”, conclude Viesti.

Ma il trucco è soprattutto nella prospettiva regionale. Non è corretto infatti parlare di regioni più ricche o più produttive, e regioni più povere o improduttive. Secondo la nostra Costituzione, possiamo solo distinguere tra cittadini più ricchi e cittadini più poveri, a prescindere dal distretto in cui si trovano a vivere, sia che essi si concentrino in un’area territoriale più produttiva, sia che si trovino in un’area depressa. Per ragioni storiche e geografiche, in tutti i Paesi del mondo ci sono aree geografiche in cui nei secoli si è sviluppata un’economia più dinamica e aree abbandonate. Il principio di solidarietà nazionale e redistribuzione dovrebbe invece – per contrasto – assegnare sempre maggiori risorse alle aree in maggiore difficoltà.

Ma su questo terreno c’è un’altra obiezione da affrontare, che deriva proprio dalle regioni del Nord. L’autonomia differenziata garantirebbe maggiore efficienza nella gestione della spesa da parte delle Regioni virtuose. Là dove lo Stato centrale spreca e dilapida, la buona amministrazione regionale saprebbe valorizzare meglio quelle risorse. Naturalmente la tesi è tutta da dimostrare, però la questione è un’altra: quando si tratta di istruzione, quali sono i parametri per individuare gli sprechi e le gestioni virtuose? Quando si può dire che le risorse sono investite bene, e quando sperperate? Certamente è possibile individuare dei parametri, ma bisogna essere consapevoli che il processo di definizione di questi determina delle priorità, e soprattutto incarna una misura di definizione del compito sociale affidato all’istruzione pubblica. Credo in realtà che molti finanziamenti, anche europei, che già oggi le scuole sono in grado di procurarsi autonomamente tramite bandi PON, così come anche le modestissime quote del fondo d’istituto, siano utilizzati male, e dunque sprecati. Ma posso asserirlo sulla base su una mia concezione della scuola e dei suoi compiti ordinari e quotidiani, spesso tralasciati per dedicarsi ad altre attività di dubbia consistenza culturale.

Ammetto tuttavia che simmetricamente, altri potrebbero ritenere meglio amministrate le risorse (quasi nulle) che oggi vengono assegnate alle biblioteche scolastiche, se indirizzate verso progetti di potenziamento delle lingue straniere o attività di coding. Il concetto di “spreco”, in campo educativo, è sempre molto insidioso. Lo Stato o la Regione hanno comunque la legittimità politica per poter definire tali priorità. Tuttavia, è bene sempre comprendere che l’efficienza non è in sé un parametro neutro, ma significa – salvo casi di clamoroso malaffare – gerarchizzazione delle voci di spesa, e la costituzione di tale sequenza delle priorità è e deve essere sempre esposta a al dibattito pubblico.

Esiste infine un problema culturale legato all’autonomia, che ricade a cascata sull’intero sistema-scuola, e che a mio parere in questi anni lo ha impoverito e svuotato. Come ho cercato di mettere in evidenza in un recente articolo pubblicato su Micromega, sono più di vent’anni che nel sistema scolastico sono stati introdotti, anno dopo anno, elementi distorsivi di natura competitiva. Le scuole sono state spinte a contendersi le iscrizioni, il personale a competere per incarichi e compensi aggiuntivi, gli studenti indotti a partecipare a concorsi d’ogni genere. L’INVALSI e i fondi PON hanno fatto il resto. Per bilanciare questa tendenza darwinista, che probabilmente non giova affatto al clima di lavoro e di studio in contesti educativi, sono stati mossi indubbi passi in avanti in chiave inclusiva e sono state sollecitate pratiche di lavoro cooperativo. Ma tutto questo è ripiombato nuovamente entro l’orizzonte dell’antagonismo. Vengono premiati quei dirigenti e quelle scuole che dimostrano “maggiore inclusività”, mentre il cooperative learning perde gran parte del proprio valore di educazione alla pro-socialità, quando è piegato alle esigenze produttivistiche del “lavorare in team” (su questo aspetto, infatti, occorrono una sensibilità e una formazione pedagogica non indifferenti, per imparare a muoversi in equilibrio sul senso e la bontà del sistema collaborativo).

Aggiungere a ciò la concorrenza tra Regioni, potrebbe ulteriormente esasperare la situazione.

4. I prossimi passaggi

Una volta definito l’accordo tra Stato e Regioni, sarà necessario presentare il testo in Parlamento, dove è prevista la necessità di una maggioranza assoluta (il quorum cioè verrà calcolato tenendo conto di tutti gli aventi diritto in Parlamento, non solo dei presenti). Su questo aspetto si è già aperto un mezzo contenzioso, perché si sospetta che il testo verrà presentato in forma non emendabile, come in parte avrebbe già anticipato la ministra per gli Affari regionali, Erika Stefani. Il presidente della Camera Roberto Fico, ha invece ribadito che «è importante, importantissimo, che il Parlamento abbia un ruolo centrale nella questione delle autonomie».

La problematica dunque è ancora aperta, e abbastanza difficile da risolvere, perché la trattativa si è già spinta molto avanti, mentre l’opinione pubblica sembra abbastanza fredda, per lo più contraria. Nel settore istruzione la quasi totalità delle sigle sindacali si era inizialmente compattata avviando uno stato di agitazione e indicendo uno sciopero generale del comparto. Ma anche l’opinione pubblica non sembra convinta: sul tema dell’autonomia differenziata un sondaggio di SKY del febbraio 2019 ha registrato un tasso di contrarietà – su scala nazionale – dell’ 80%, che arriva al 97,6% tra gli elettori del M5S, ma anche al 51,2% tra quelli della Lega. Indubbiamente, con l’accordo sindacale firmato nella notte tra 23 e 24 aprile, anche in forza della attuale tensione tra i due partiti di governo, si è registrata una frenata. Alcuni sindacati (CGIL, CISL, UIL, SNALS, GILDA) hanno sospeso lo sciopero, di fronte all’impegno del governo, che tuttavia rimane imperfetto. Nel testo dell’accordo si legge infatti: “Il Governo si impegna a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo stato giuridico di tutto il personale regolato dal CCNL, e la tutela della unitarietà degli ordinamenti statali dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.

In un certo senso si tratta di un impegno serio, ma il punto è che non ci troviamo di fronte a una prerogativa del Governo, in senso stretto, perché su questi punti si potrebbe pronunciare diversamente il Parlamento, in cui non è da escludere la possibilità della composizione di una maggioranza trasversale. Non a caso, i sindacati che hanno sospeso lo sciopero non hanno interrotto la raccolta delle firme, perché resta ancora alta l’allerta su questo punto.

Dal punto di vista degli insegnanti, è difficile immaginare un miglioramento delle condizioni di lavoro, né di quelle relative alla mobilità. Anche un eventuale incremento salariale in alcune regioni, non potrà che determinarsi in una chiave di generale indebolimento della capacità contrattuale della categoria, con le organizzazioni sindacali inevitabilmente frammentate e meno capaci di supportarsi vicendevolmente. Questo significa, sul lungo periodo, l’esposizione a una maggiore vulnerabilità contrattuale.

In ogni caso, rimanendo sul terreno dell’istruzione, non v’è dubbio che la devoluzione in materia educativa può determinare, sulla base dei termini in cui verrà definito il passaggio, un forte squilibrio nelle diverse aree del Paese, un aumento importante della competizione e un eccessivo controllo politico localistico sulle scuole. Tutti fattori di rischio non indifferenti, di cui l’intera collettività politica dovrà farsi carico, aprendo una fase di discussione ponderata e consapevole.

Testo già pubblicato su Micromega.                                          


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