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Ministri basta sparare sulla storia

Le riforme dell’istruzione degli ultimi decenni sono state tutte criticate. Ma la più dannosa è l’ultima: quella che ha ridotto drasticamente lo studio del passato

12/09/2019
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la Repubblica

Sergio Rizzo

Se vuoi distruggere un Paese, per prima cosa devi distruggere la sua storia. Perché senza la storia un Paese non è niente. Semplicemente, non esiste. In Italia l’operazione "Distruzione della storia" va avanti da molto tempo. Nei decenni si sono diligentemente applicati alla fucilazione della nostra memoria plotoni di ministri dell’Istruzione. Indimenticabile l’epoca di Letizia Moratti, che nel settembre 2003 riformò i cicli scolastici per introdurre le tre "I" che ossessionavano il suo premier Silvio Berlusconi: Impresa, Informatica, Inglese. A spese, ovviamente, della storia (…). Quale risultati abbia prodotto quella geniale revisione dei cicli scolastici lo dicono le pagelle sulla preparazione dei nostri studenti stilate periodicamente dall’Ocse. I più recenti test Pisa (Program for international student assessment) rivelano che, dal 2006, i ragazzi italiani non hanno mostrato alcun progresso, con il 20 per cento di chi frequenta la seconda classe della media superiore incapace di ottenere un livello minimo di competenza perfino nella lettura di un testo (…).

Ma sembrava impossibile raggiungere quelle vette di inizio millennio finché al ministero dell’Istruzione non è arrivato Marco Bussetti. Professore di educazione fisica alle scuole medie ed ex allenatore della squadra di pallacanestro di Gallarate, si è laureato a trentotto anni in Scienze e Tecniche delle attività motorie con una tesi sul minibasket. Curriculum impreziosito da una carriera di dirigente scolastico in Lombardia: perfetto per un ministro dell’Istruzione bollinato dalla Lega di Matteo Salvini.

Chi nutrisse dubbi circa la sua fede leghista a trazione integrale, può dissiparli con facilità. E non perché il suddetto ministro, alla domanda se intendesse o meno colmare il divario dell’istruzione fra il Sud e il Nord destinando qualche soldo in più alle scuole meridionali, abbia risposto picche invitando piuttosto i professori terroni a rimboccarsi le maniche (…).

Il richiamo della foresta, piuttosto, si è manifestato irresistibile in altre più amene occasioni. Per esempio, è accaduto quando, senza un briciolo d’imbarazzo, il ministro Bussetti ha firmato con il governatore del Veneto Luca Zaia un "protocollo d’intesa per lo sviluppo delle competenze in materia di storia e cultura del Veneto". Intendiamoci, non ci sarebbe niente di male nella decisione del ministero dell’Istruzione di formare più docenti specializzati nella storia di quel territorio, parte importantissima della storia d’Italia e d’Europa (…). Il problema è che questa iniziativa è invece un altro piccolo tassello nel grande piano di secessione strisciante mascherato dall’autonomia rafforzata a cui punta il Veneto, che rivendica addirittura una gestione dell’istruzione indipendente da quella statale (…) .

Negli stessi giorni dell’accordo con Zaia, il ministro dell’Istruzione della Repubblica italiana annuncia che gli studenti alle prese con l’esame di maturità non troveranno più d’ora in poi la traccia di storia nel tema d’italiano. Bum!

Il Nostro si affanna a giustificare la coltellata al programma affermando che «la storia sarà presente in tutte le tracce del nuovo esame di maturità », e comunque «il tema storico veniva svolto solo dal 7 per cento degli studenti». Le statistiche dicono in realtà che negli ultimi dieci anni la media dei maturandi che hanno scelto la traccia di storia per la prima prova d’esame non supera il 3 per cento. Il record negativo, segnala "Skuola.net", appartiene al 2010: ministro Mariastella Gelmini, traccia sulle Foibe, 0,6 per cento. Ma anziché domandarsi quale sia la ragione di questa disaffezione e correre ai ripari, siccome la storia è sempre più indietro nei sondaggi, allora la cancelliamo direttamente.

Per onestà, va ricordato che questa non è proprio farina del sacco di Bussetti. La riforma dell’esame di maturità è frutto dei singolari studi di una commissione insediata da chi l’ha preceduto, la ministra del Pd Valeria Fedeli, e presieduta dal linguista Luca Serianni. Ma è il ministro in carica a metterci la faccia, condividerla, giustificarla e farla sua.

Alla reazione più indignata, quella della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio nazista degli ebrei, che in una intervista a Repubblica chiede al ministro di fare marcia indietro, Bussetti replica algido: «I giovani sono il futuro del Paese. Vogliamo per loro un’educazione di qualità: lo studio della storia è fondamentale e non abbiamo alcuna intenzione di eliminarlo dalla loro formazione». Amen.

Belle parole. Ma ha ragione da vendere Fulvio Cammarano, il presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea, che denuncia la profonda ipocrisia collettiva della politica: «Tutti dicono che la storia non si deve toccare ma da molto tempo purtroppo viene toccata, e togliere la traccia dal tema di maturità segna la definitiva marginalizzazione del suo insegnamento ».

Troppo buono, Cammarano. Perché il termine più calzante per definire una materia relegata al liceo classico (al liceo classico!) in uno spazio di tre ore alla settimana, geografia compresa, non sarebbe "marginalizzazione". "Rimozione", piuttosto.

I risultati purtroppo si vedono. E si vedono drammaticamente sulla storia contemporanea, il periodo più vicino a noi (…). Sapete quanti erano nell’anno accademico 2008/2009 gli iscritti ai corsi di laurea specialistici in Storia contemporanea? Erano 942. Novecentoquarantadue su un 1.746.477 iscritti, lo 0,05 per cento. Ma da 942 sono scesi a 624 l’anno accademico seguente. Poi a 303. Quindi a 146. Per calare di anno in anno a 93, 66, 42, 30, fino ai 22 nel 2016/2017. L’ultima rilevazione del ministero dell’Istruzione dice che nell’anno accademico 2017/2018 gli iscritti alle lauree specialistiche in Storia contemporanea erano rimasti 20. Venti, su un 1.716.311 studenti universitari. Lo 0,001 per cento. Il Nulla.

E il numero dei laureati va di pari passo. Nel 2007/2008 furono 296. E da allora una discesa a precipizio anno dopo anno: 291, 238, 129, 40, 20, 16, 6, 4.

L’ultimo dato presente nella banca dati del ministero è dell’anno accademico 2016/2017: numero di laureati in Storia contemporanea, 3. Tre su un totale di 316.879 laureati in tutte le discipline in tutta Italia. Tre come i laureati in Lingua e cultura italiana nell’anno accademico precedente, perché nel 2016/2017 non ce n’è stato neppure uno a laurearsi in quella che fino a prova contraria dovrebbe essere, con tutto il rispetto per il veneto, il lombardo, il siciliano, il ladino e il patois, la nostra lingua madre. Zero. A conclusione di una parabola avvilente: dai 149 laureati dell’anno accademico 2008/2009 a 119, 84, 62, 19, 8, 5, 3, zero. Tre laureati in Storia contemporanea e zero in Lingua e cultura italiana: c’è da capirli i nostri ragazzi, e forse anche i genitori che li avranno di sicuro sconsigliati dall’intraprendere certe carriere universitarie. Con quei diplomi in tasca non si mangia. Meglio che ti possa andare è portare il sushi in bicicletta a domicilio la sera alle dieci ai giovani che hanno studiato Ingegneria o Economia.

Ma in questa faccenda c’è comunque qualcosa che non va. Mentre si laureavano in Storia contemporanea tre coraggiosi, le università italiane sfornavano pur sempre 194 dottori in Scienze della comunicazione. Avete presente? Il top: scrivere per pubblicazioni online pagati tre euro a pezzo o fare l’addetto stampa di qualche onorevole sfigato, non di rado in nero. Un’avventura piena di stenti, si poteva immaginare da un pezzo: il che però non ha scoraggiato la ricerca di fortuna nel settore che si stava proletarizzando più di ogni altro. E anche se l’ubriacatura sembra quasi passata, il numero dei dottori in Scienze della comunicazione usciti in soli dieci anni dagli atenei italiani fa una certa impressione: sono 34.537. Dei quali ben 3423, cifra pari al 10 per cento del totale, laureati in una sola università. Quella di Catania, città dove la disoccupazione giovanile sfiorava il 60 per cento.


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