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Liberazione-Cultura italiana messa in ginocchio

Cultura italiana messa in ginocchio di Stefania Brai "L'attività di didattica della Scuola nazionale di cinema di Roma è sospesa in attesa delle determinazioni che il ministero per i Beni e le a...

05/01/2006
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Liberazione

Cultura italiana messa in ginocchio
di Stefania Brai
"L'attività di didattica della Scuola nazionale di cinema di Roma è sospesa in attesa delle determinazioni che il ministero per i Beni e le attività culturali assumerà in ordine al finanziamento per l'anno 2006". Questo si legge sul sito del Centro sperimentale di cinematografia. In realtà è in gioco la ripresa della didattica per gli allievi del primo anno. Motivazione: i tagli drammatici dei finanziamenti dello Stato decisi dalla finanziaria 2006 del governo Berlusconi all'unica scuola pubblica di formazione cinematografica. Molte fondazioni lirico sinfoniche e molti teatri rischiano la paralisi o la chiusura. Motivazione: i tagli operati dalla finanziaria e la mancanza di leggi di riforma di questi settori. Il cinema italiano è stato messo in ginocchio da una pessima legge Urbani e dai tagli. La Mostra d'arte cinematografica della Biennale di Venezia per la prima volta nella sua storia (cioè dal 1932) rischia di non potersi svolgere. Motivazione: mancanza di fondi a causa dei tagli allo spettacolo decisi dalla finanziaria 2006. (In questo caso un contributo notevole viene anche dalla concorrenza di un festival cinematografico internazionale che si sta preparando nella capitale, con molti soldi privati, a poco più un mese dalla manifestazione veneziana). Questa è la radiografia della produzione culturale di questo paese. Questo erediterà un nuovo governo. Ma va detto e ripetuto che se l'agonia di cinema, teatro, musica, editoria di qualità, istituzioni culturali pubbliche di produzione e di formazione è stata decretata ufficialmente dai tagli al Fondo unico dello spettacolo, questi non sono che il risultato finale di una politica complessiva di questo governo nei confronti della cultura e della conoscenza. Una politica che considera sostanzialmente la cultura e la conoscenza una merce come le altre, una politica che ha privatizzato il sapere, e lo ha fatto legando la conoscenza all'impresa e la cultura al mercato. E poiché la cultura e la conoscenza sono tra gli strumenti che contribuiscono alla formazione dei livelli di coscienza degli individui, allora la cultura si può e si deve tagliare, allora va ridotto la pluralità dell'offerta culturale e vanno ridotte le possibilità di accesso ad essa. Poca cultura, deconflittuata e deconflittuante, e per pochi. Va anche detto che un effetto positivo quanto involontario questa politica l'ha determinato. Ci sono voluti scioperi generali di tutti i settori, concerti di protesta nei più grandi teatri italiani, manifestazioni in tutta Italia, scioperi della fame, lotte ed occupazioni, ma alla fine nessuno tra le forze politiche del centro-sinistra credo possa più negare la necessità di una politica per la cultura. Il problema è: in quale direzione? Il tavolo dell'Unione per il programma sulla cultura - già la sua stessa costituzione è una novità di non poco rilievo - ha prodotto a mio parere un buon documento, anche se ovviamente di mediazione. Si riconosce la cultura come "ambito strategico di investimento pubblico" e si afferma "la centralità e l'irrinunciabilità di un forte impegno pubblico" nelle attività culturali.

Si individuano alcune misure urgenti: ristabilire il bilancio complessivo del Ministero per i beni e le attività culturali al livello previsto per il 2001; riportare gli stanziamenti del Fondo Unico dello Spettacolo almeno al livello del 2001, e cioè a 526,4 milioni di euro complessivi; portare gli stanziamenti dello Stato per i beni e le attività culturali all'1% del bilancio dello Stato entro i primi 24 mesi di governo; stabilire l'obiettivo dell'1% del Pil di risorse pubbliche destinate alla cultura nel medio-lungo periodo (rispetto all'attuale 0,17 percento). Ci si impegna inoltre ad approvare una disciplina nazionale di sistema per lo spettacolo dal vivo e per quanto riguarda il cinema una nuova normativa che preveda tra l'altro la costituzione del centro nazionale per la cinematografia e una seria legge antitrust. Tutto bene, dunque? Sì e no. No, perché all'interno dell'Unione le divisioni sono ancora tante. E in realtà ancora molto diverse le politiche che si hanno in mente. Lo "scontro" nel tavolo è stato serio e ha riguardato proprio alcuni dei nodi sui quali basare un intervento strategico nella cultura. Le divergenze, per citare alcuni esempi, vertevano su opzioni contrapposte: riforma del Titolo V della Costituzione per riportare al necessario livello nazionale una politica per la cultura oppure massima regionalizzazione dei fondi e delle normative; riforma profonda delle fondazioni, la cui istituzione (voluta dal governo di centrosinistra) ha causato i danni che sono oggi sotto gli occhi di tutti o solo una loro razionalizzazione; abolizione o difesa, come sostiene la Margherita, del reference system, di quel meccanismo cioè voluto da Urbani in base al quale è premiato e finanziato dallo Stato solo chi è già forte sul mercato; potenziamento degli enti cinematografici pubblici o invece loro cancellazione per lasciare che sia il mercato a decidere tutto. E si potrebbe continuare. Bene, invece, perché paletti importanti e di non poco conto sono stati messi. Bene, perché principi di fondo importanti e di non poco conto sono stati individuati, riaffermati e sostenuti. In altre parole si sono creati terreni di confronto più avanzati: sui quali si potrà lavorare per portare avanti delle politiche per la cultura realmente basate sul valore strategico che questa riveste. Strategico per lo sviluppo e strategico sul piano economico per l'indotto che determina. Ma strategico per noi principalmente per l'utile culturale e dunque sociale che produce. Cultura e conoscenza non fattori di "coesione sociale" ma strumenti e momenti di formazione e di crescita, di consapevolezza critica, di conoscenza della realtà. Per modificarla, con e nel conflitto. E cultura e conoscenza come beni comuni. Che vuol dire non privatizzabili, ma che vuol dire anche patrimonio di tutti, bene inalienabile. Vuol dire anche cioè che a tutti va garantito l'accesso alla produzione ma ancora di più alla fruizione della cultura. Vuol dire anche lavorare contro la desertificazione culturale di tutte le "periferie", pensando per esempio a luoghi pubblici di produzione e sperimentazione culturale da far crescere in ogni quartiere e in ogni paese e la cui gestione sia affidata al territorio. E lavorare invece contro tutte le politiche dei "grandi eventi" che invadono le nostre città, producendo utile economico - esclusivamente ai commercianti - ma consumando risorse pubbliche e lasciando il deserto alle loro spalle. Vuol dire anche pensare politiche economiche che consentano ai giovani e a chi ha basso reddito di accedere ad una sala cinematografica, ad un concerto, ad uno spettacolo teatrale, alla lettura dei libri. Vuol dire politiche che riconoscano ai lavoratori dello spettacolo il diritto agli ammortizzatori sociali e ad una pensione umana. Vuol dire anche sostenere la protezione e la promozione delle diversità culturali nel mondo come nei nostri quartieri. Impegnandosi intanto come governo italiano a firmare la Convenzione dell'Unesco e impedendo così che la cultura rientri nei negoziati del Wto. Se questo avvenisse sarebbe decretata l'impossibilità per qualunque Stato nazionale di sostenere la propria produzione culturale. E vuol dire tante altre cose, ovviamente. Vedremo quale spazio effettivo avrà la cultura nel programma definitivo di Prodi. Vedremo chi sarà - in caso di vittoria dell'Unione - a ricoprire la carica di ministro per i beni e le attività culturali. E vedremo - non nel senso di stare a vedere - quali politiche elaborerà, con chi e per chi. Il rischio più grave è però che un settore arrivato allo stremo si accontenti di poter ricominciare a vivere o, peggio, come è già successo durante il governo di centro-sinistra e non solo certo in campo culturale, ritenga che il silenzio sia il modo migliore per sostenere un governo considerato "amico". Allora sì che sarebbe davvero la morte della cultura.
5 gennaio 2006
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