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Le utili competenze sul lavoro che la scuola ancora non insegna

Roger Abravanel

24/11/2013
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Corriere della sera

L e opinioni sulla drammatica
disoccupazione giovanile in Italia sono diverse, ma due riempiono da diversi anni i titoli dei giornali. Purtroppo sono entrambe sbagliate.
La prima sostiene che la disoccupazione giovanile sia tutta colpa della crisi, dell’euro, dell’austerità e che la soluzione sia un intervento più deciso dello stato aumentando la spesa pubblica o creando incentivi all’occupazione giovanile. C’è la convinzione che con la ripresa economica il problema verrà risolto. Quest’idea è sbagliata per un motivo importante, ma poco noto: in Italia la crisi dal 2009 ha aumentato la disoccupazione complessiva, ma quella giovanile è aumentata da ben prima, continuando un trend che esiste dalla fine degli anni 90. Il rapporto tra disoccupazione giovanile e disoccupazione totale è in aumento da 20 anni ed è oggi il più alto dei paesi occidentali. In altre parole, i nostri giovani faticano di più dei meno giovani a trovare lavoro, e se e quando supereremo la crisi, il loro problema non sarà risolto. Qui entra in gioco la seconda corrente di pensiero che ritiene che ci sia qualcosa di sbagliato nel comportamento dei giovani italiani che rifiutano lavori manuali e faticosi come il panettiere o precari come l’addetto al call center. L’ex ministro Fornero li ha definiti choosy (schizzinosi) e il compianto Tommaso Padoa Schioppa aveva coniato il termine «bamboccioni» per i giovani che non si sforzano di rendersi indipendenti, preferendo starsene a casa «da mammà». Secondo questa teoria i giovani hanno aspettative irrealistiche per il loro lavoro, scelgono lauree «facili» (per esempio in scienza della comunicazione), e si aspettano un posto garantito dallo Stato.
Ebbene anche questa seconda corrente di pensiero è sbagliata, oltre ad essere un po’ paternalistica. È perfettamente comprensibile che i giovani italiani del XXI secolo desiderino occupazioni più qualificate e con più prospettive di quelle offerte a un garzone di panetteria. È un lavoro duro (si inizia alle 3 di mattina) e se si coltiva la prospettiva di mettersi poi in proprio, si rischia di non farcela quasi mai perché i panettieri stanno chiudendo come la gran parte dei piccoli esercizi commerciali. Ma esiste un altro modo di fare il panettiere: fare l’assistente al reparto di panetteria (o gastronomia) di un’azienda evoluta della grande distribuzione.
È comunque un lavoro duro che prevede turni domenicali e inizia alle 6 di mattina, ma meno che quello di un garzone di panetteria. Soprattutto è più interessante perché si lavora con team di giovani, si seguono corsi di formazione sul come fare il pane, su come si espone e si vende, si è a contatto con i clienti e se si dimostra impegno e capacità si può fare carriera diventando capireparto, e poi capi negozio o ispettori. Il tutto con le protezioni mediche e antiinfortunistiche di una grande azienda. Spesso gli italiani non capiscono che c’è panettiere e panettiere. Come non capiscono che c’è call center e call center. Non esistono solo i call center che vivono di precariato e bassi salari. Di solito sono specializzati sulle chiamate «outbound» (il call center chiama un numero spesso a caso per proporre un’offerta telefonica di una tv privata o di una carta di credito). Esistono anche quelli che ricevono le telefonate di assistenza dei clienti delle grandi aziende di servizio, tipo la Vodafone o la Tim (il cosiddetto «inbound»), hanno nomi poco noti al grande pubblico (come Comdata e E-care), ma impiegano migliaia di giovani. Sono giovani selezionati, perché le aziende di servizio all’assistenza clienti ci tengono, capaci di ascoltare e risolvere problemi. In questi call center si lavora in team, si riceve molta formazione, si può fare carriera e il precariato permanente è un’eccezione.
Gli italiani spesso pensano che per trovare lavoro oggi ci vogliano titoli di studio specializzati (ingegneri, softwaristi, ecc) e invece non è vero: gli ingegneri trovano più facilmente lavoro ma più per l’impegno e l’intelligenza dimostrati negli studi che per le conoscenze di scienza delle costruzioni. La maggioranza delle offerte di lavoro di oggi peraltro richiede solo un diploma di scuola superiore e/o lauree brevi. Conoscenze avanzate dell’inglese e del computer si richiedono raramente.
Ciò che conta oggi per i datori di lavoro sono «etica del lavoro» (impegno, ma anche iniziativa e senso di responsabilità), la capacità di comunicare, di risolvere problemi e di lavorare in team. La rivoluzione post-industriale ha reso molto più importanti queste competenze, cosiddette «soft» per distinguerle da quelle «dure», cioè collegate con una specifica preparazione tecnica.
La selezione di milioni di giovani che oggi hanno un lavoro si basa sulla valutazione di queste caratteristiche personali con approcci molto più meritocratici di quanto non si immagini. E purtroppo molti posti restano vacanti (o vengono affidati a persone con esperienza) non perché mancano gli ingegneri o servono degli esperti, ma perché i giovani queste competenze spesso non le hanno. E così le aziende preferiscono l’ «usato sicuro», il lavoratore maturo che almeno ha imparato come si lavora in una azienda.
Capacità di risolvere problemi, comunicare, lavorare in team e impegno personale si dovrebbero imparare a scuola e l’Ocse ha ormai chiaramente dimostrato la minor qualità delle nostre scuole nell’insegnamento di queste competenze chiave ai giovani italiani. Il mondo del lavoro è cambiato, ma la scuola italiana no. E si rifiuta di accettarlo. Ma questa è un’altra (lunga) storia.
meritocrazia.corriere.it
 


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