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La Stampa-Scuola europea e "uomo flessibile

MOLTE LE DIFFERENZE TRA I VARI PAESI NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE. È DIFFICILE PREVEDERE LE ESIGENZE DEL FUTURO Scuola europea e "uomo flessibile" 14 maggio 2002 di Arnaldo Bagnasco La presen...

14/05/2002
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La Stampa

MOLTE LE DIFFERENZE TRA I VARI PAESI NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE. È DIFFICILE PREVEDERE LE ESIGENZE DEL FUTURO
Scuola europea e "uomo flessibile"

14 maggio 2002

di Arnaldo Bagnasco

La presentazione di un quaderno dell'associazione Treelle (Long life learning) è in questi giorni l'occasione per nuove riflessioni e discussioni sulla scuola italiana. L'enfasi nella presentazione dei dati forniti è stata posta sulla necessità di una scuola "più europea". Ciò che può significare, a ben vedere, due cose: necessità di percorsi di insegnamento che portino alla formazione di cittadini europei, consapevoli di una storia e di una cultura ricche e diversificate, ma sostanzialmente riconducibili a tratti unificanti e comuni, storia e cultura dunque da rileggere e trasmettere alle nuove generazioni in questa chiave; ma anche, questo è il secondo significato, una scuola che garantisca standard di efficienza comparabili a quelli degli altri paesi europei.

I dati che di solito si citano quando si parla della necessità di una scuola "a misura dell'Europa" riguardano il secondo significato e le questioni certamente importanti che in questa prospettiva si pongono, peraltro anche più facilmente argomentabili con dati e indicatori statistici. Le questioni che derivano dal primo significato, pure importanti, restano molto più in ombra, perché più difficili. Basti pensare a quanta nuova ricerca e quale riorientamento della didattica richieda ripensare storia e cultura in modo comparato: l'osservazione naturalmente vale per la nostra scuola come per tutte le altre. In una situazione in cui le richieste di formazione tecnico-scientifica sono giustamente pressanti, bisognerebbe allora riflettere anche seriamente sul fatto che l'impresa di costruire cittadini europei è un compito difficile, che richiede molte risorse e un impegno politico convinto.

Ma veniamo al secondo significato. I nuovi dati confermano ritardi di efficacia e efficienza della scuola italiana rispetto a standard europei, anche se si mostra una tendenza da tempo stabilita a netti miglioramenti. Questa, per inciso, è una osservazione importante: in molti discorsi correnti sembra sempre che si debba partire da zero, ma non è affatto così. Il ritardo comunque resta: per esempio, la percentuale di ragazzi fra 15 e 19 anni che frequentano la scuola sono nella media europea 81, in Italia dieci in meno (ma quanto dipende dalla scuola e quanto da altre ragioni?); gli investimenti sono inferiori alla media europea, e male distribuiti; manca una seria verifica delle capacità e del rendimento degli insegnati. Questo è un punto delicato, che richiede di essere affrontato con decisione; bisogna solo non dimenticare, facendolo, che un reclutamento in molti casi lasciato per anni a procedure ope legis, vale a dire senza concorsi, non è una particolarità della scuola, ma purtroppo in generale del nostro sistema amministrativo, come non si stanca di ricordare il giurista Sabino Cassese.

I dati del "quaderno" dicono poi che il rapporto insegnanti-studenti è superiore alla media europea. È un dato che potrebbe addirittura segnare un vantaggio, se non fosse che confrontato con i dati di rendimento del sistema formativo segnala piuttosto una inefficienza, forse una cattiva organizzazione o una cattiva distribuzione. Non so dire molto al riguardo, salvo qualcosa sull'Università. La mia esperienza è che i compiti didattici connessi alla progettazione e alla gestione dei nuovi corsi previsti dalla riforma, che ha come obiettivo fondamentale far crescere i possessori di un titolo universitario nel nostro paese, corsi in genere avviati a costo zero, hanno evidenziato una serissima carenza di organico. P

arlando dell'Università, vale la pena ancora fare una osservazione che riprende la questione dei parametri sul rendimento delle nostre istituzioni formative, per non nascondercelo, ma di nuovo per non enfatizzarlo polemicamente. È vero che la percentuale di laureati sulla popolazione con più di 25 anni è per l'Italia inferiore alla media europea (10 su cento, a fronte di 25 su cento), ma per calibrare i giudizi sulle differenze bisogna tenere conto che fino a pochi anni fa non esistevano in Italia corsi universitari brevi, che entrano nelle statistiche degli altri paesi.

C'è ancora un punto che vorrei porre a conclusione, che mi sembra rilevante per ogni riflessione su una scuola "più europea". Al di là di somiglianze e differenze riducibili a confronti di dati quantitativi rispetto a una "media" dei valori in Europa, è importante tenere presente che non esiste un modello di scuola europea. Al contrario, esistono differenze molto importanti nelle istituzioni di formazione, nel modo in cui sono organizzate e negli effetti che producono, tutte cose che per lo più non si vedono nei confronti di indicatori sintetici.

La parte e l'influenza dello Stato nell'organizzare le istituzioni scolastiche, per esempio, sono notevolmente diverse a seconda dei paesi; il problema della combinazione di istruzione generalista e formazione professionale è risolto in modi diversi nei percorsi formativi previsti; in Svezia e in Inghilterra, come del resto in Giappone e negli Stati Uniti, l'istruzione specialistica mirata alla professione ha una importanza molto limitata nell'accesso a ruoli professionali e manageriali; il contrario si verifica per Germania, Italia e Svizzera: qui i laureati hanno 2000 volte la probabilità di soggetti con titolo di studio inferiore di accedere a ruoli professionali o dirigenziali, mentre in Inghilterra la differenza scende a 1400 (e molto di più scende negli Stati Uniti); capire bene perché permetterebbe una migliore comprensione dei processi formativi all'interno della società. Le differenze qualitative che ora abbiamo evocato entrano meno nella discussione pubblica, e il richiamo alla necessità di una scuola "europea" considerata come media di dati statistici rischia di nasconderli.

Un'ultima osservazione per concludere. Tutte le scuole di tutti i paesi dovranno confrontarsi con mutamenti importanti del mercato del lavoro e delle possibilità di iniziativa economica autonoma. Il "capitalismo flessibile" non fissa più le persone in stabili ruoli lavorativi, rischia di rendere presto obsoleta una capacità acquisita, rende meno prevedibili le carriere. Quali saranno le conseguenze a lungo termine nessuno può con chiarezza prevedere: si va da scenari piuttosto apocalittici circa la capacità di reggere un simile gioco da parte della maggioranza delle persone, a scenari rosei che sottolineano il valore dell'autonomia e della libera capacità di movimento che la nuova condizione consentirebbe di realizzare. Probabilmente, come spesso succede, la verità starà nel mezzo; o per meglio dire, potremo tenere il timone orientato a una accettabile rotta se saremo capaci di orientare, compensare, organizzare le condizioni del processo economico e gli adattamenti a questo delle persone.

Va da sé che la cura della formazione delle persone ha un significato decisivo al riguardo. Il punto è che nessuno sa bene quale tipo di formazione richiederà davvero questo temuto o magnificato "uomo flessibile", che oltretutto vogliamo che rimanga un cittadino, e un uomo. Quando si vedono di fronte a noi problemi come questo, vale almeno una raccomandazione per chi si occupa di formazione e per tutti noi: essere diffidenti nei confronti di chi con troppa sicurezza ci presenta le sue ricette.


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