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La Stampa: "L'Università guidi il dopo crisi"

«L'Italia deve puntare su formazione e ricercatori»

25/12/2009
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La Stampa

intervista a Francesco Profumo

Andrea Rossi

Professor Francesco Profumo, rettore del Politecnico, che 2010 ci aspetta?
«Sarà ancora un anno difficile, nonostante i segnali di ripresa, ma bisogna scacciare la paura. Si deve continuare a investire, senza l’assillo di un ritorno immediato, guardando più in là, cosa che in Italia riesce spesso difficile»
Ma nel 2009 in provincia di Torino hanno chiuso quasi mille imprese.
«Vero. Il 2010 sarà l’anno della rivincita se sapremo delineare l’uscita dalla crisi e immaginare che mondo troveremo dopo».
E che mondo sarà?
«Tanti lavori scompariranno. Tante piccole aziende, senza innovazioni, non sapranno reggere la concorrenza globale. Ma nasceranno anche nuove opportunità. Sarà fondamentale puntare sulla formazione continua: chi sta per entrare nel mondo del lavoro, chi ha perso il posto e deve ricollocarsi. L’Università può esercitare un ruolo trainante».
Ma gli atenei, già in difficoltà, non dovrebbero concentrare tutte le risorse sui propri studenti?
«In un periodo “normale” il sistema economico-produttivo potrebbe garantire quel minimo di innovazione necessaria. Ma qui siamo dentro uno tsunami. E allora le università devono mettere le proprie competenze e persone al servizio della società».
Un esempio?
«I ricercatori. Il dottorato di ricerca è nato negli anni Ottanta, quando chi entrava aveva un posto garantito. Non è più così: ogni anno nella nostra Scuola di dottorato entrano in 200 ma ne possiamo assorbire poche decine. Il Paese, il Piemonte, non possono permettersi di sprecare questa risorsa».
Come valorizzarla?
«Penso alle imprese, che dovranno guardare a un mercato non più locale: le competenze del fare e dell’esperienza non saranno più sufficienti ma sarà fondamentale una dimensione tecnologica e manageriale più avanzata. Penso anche alle pubbliche amministrazioni che devono rinnovarsi. La Regione, ad esempio, è nata negli anni ’70; oggi le persone che l’hanno “costruita” sono alle soglie della pensione. Serve una nuova classe dirigente. E non solo lì: a Torino le società ex municipalizzate sono la più grande azienda della città. La loro funzione non è più limitata a erogare un servizio (acqua, gas, elettricità). Devono competere sul mercato, lavorare sulle nuove energie, sul risparmio. Le Università devono guidare questi processi».
Come, vista la crisi che le attraversa?
«Devono farlo, anche se l’Italia si sta dimostrando un paese che investe poco sul futuro, bloccato, incapace di una visione strategica. Gli atenei risentono spesso di questo scoglio culturale diffuso nel Paese; alcuni cercano di superarlo, progettare il futuro, anticipare i cambiamenti. Al Politecnico ci proviamo. Il numero di iscritti è cresciuto molto, e così quello dei finanziamenti dei privati: significa che famiglie e imprese non hanno rinunciato a investire in formazione; anzi, nonostante la crisi, l’hanno fatto con ancora più convinzione».
I fondi per l’Università diminuiscono. Ha senso in un periodo di crisi?
«No, ma è la realtà. Dovremo andare a cercare fondi in Europa. Il Politecnico sta incrementando la quota di risorse ricevute dall’Unione europea del 30-40 per cento ogni anno. L’Italia è indietro: ogni anno investiamo nella ricerca europea 15 miliardi di euro ma ne sappiamo recuperare soltanto 10 per i nostri atenei. Il saldo negativo è di 5 miliardi. Se pensiamo che lo Stato finanzia il sistema universitario con 7 miliardi l’anno è facile capire quanto ci danneggino le nostre performance».
Colpa dell’Europa che ci penalizza o colpa nostra?
«Colpa nostra. Non sappiamo fare squadra. Ci comportiamo come se la competizione fosse interna. A volte l’Italia mi sembra uno Stato feudale».
Appunto: il Mi-To dei Politecnici si è arenato?
«No, e io rivendico la bontà di quel progetto, basato su dati concreti: le nostre due università laureano il 45 per cento degli ingegneri d’Italia; Piemonte e Lombardia producono il 30 per cento del Pil nazionale e il 40 per cento delle esportazioni. Perché non lavorare insieme? Che senso ha che io vada in Cina a stringere accordi e un mese dopo (o un mese prima) ci vada pure il rettore di Milano?».
Servirebbe una forte guida politica per accelerare questi processi. C’è?
«La politica spesso subisce i cambiamenti. Gestisce il quotidiano. Nelle spire della crisi è comprensibile, ma pesa la mancanza di una forte capacità di pensare il futuro. Siamo immersi nel presente, e andare a votare tutti gli anni non aiuta».
A proposito, chi vincerà la regionali?
«Sembra una sfida aperta. L’importante è non smarrire il ruolo guida che il Piemonte ha assunto sul fronte dell’innovazione tecnologica e delle energie rinnovabili. In Italia nessuno ha fatto tanto». Tra un anno si vota anche a Torino: di cosa c’è bisogno? «Di un nuovo piano strategico, come quello di 15 anni fa, che ha cambiato volto alla città. Oggi quella spinta si è esaurita, quel progetto è stato realizzato. Ne serve uno nuovo».


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