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La rivolta dei giovani: “No ai baroni della scienza”

Negli Usa si allarga il fenomeno dell’«open science», guidato dai giovani ricercatori.

18/01/2012
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La Stampa

C’ è una rivoluzione in corso nel mondo della scienza, che cambierà il modo in cui vengono distribuiti i risultati della ricerca. Un processo simile a quello del movimento «open source» per i programmi informatici che, aprendo e facilitando la circolazione della conoscenza, dovrebbe accelerare la realizzazione di scoperte utili a tutti. Questa rivoluzione si chiama «open access» e affonda le radici alla fine degli Anni 90, ma ora sta diventando così importante da finire sulle pagine di giornali non specialistici come il «New York Times».

Quando uno scienziato di qualunque settore completa uno studio, il primo obiettivo è pubblicarlo su una rivista specializzata. Questo atto sancisce l’attribuzione della scoperta e garantisce tutti i vantaggi accademici e pratici che possono derivarne. Le carriere universitarie, negli Usa e non solo, si basano sulle pubblicazioni, così come i brevetti assicurano lo sfruttamento commerciale delle scoperte. Quindi, quando la ricerca è finita, l’autore la manda alle riviste specializzate, nella speranza che venga accettata. A questo punto comincia un processo che prevede una prima revisione del testo da parte degli editor e poi una «peer review» da parte di colleghi dello stesso settore, che valutano i risultati per stabilire se meritano di essere pubblicati. Naturalmente c’è una graduatoria di importanza per le riviste: «Nature» e «Science» sono il top, ma, se si viene rifiutati, si può scendere verso il basso, riproponendo lo studio a giornali meno importanti, finché non si trova qualcuno che lo accetta.

Il meccanismo ha due difetti: primo, il costo di accesso alle riviste, che vengono pubblicate a pagamento; secondo, l’influenza delle élite e dei baroni, che favoriscono uno scienziato a scapito di un altro, o le rivalità tra studiosi, che a volte bloccano l’uscita di una ricerca concorrente per batterla sul tempo.

Il sistema dei giornali specializzati ha funzionato per due secoli, ma Internet lo ha scosso. I giovani scienziati, esclusi dai grandi giri che controllano le pubblicazioni, hanno iniziato ad immaginare alternative digitali per la distribuzione dei loro lavori. La prima svolta è avvenuta a fine Anni 90, quando questi ragazzi sono riusciti a portare dalla loro parte Harold Varmus, Nobel e, forse, principe dei baroni americani. Varmus, che oggi dirige il National Cancer Institute e ha guidato il Memorial Sloan-Kettering di New York, era all’epoca direttore dei National Institutes of Health, l’istituzione pubblica che distribuisce a tutti i fondi per la ricerca. Harold si innamorò dell’idea che la circolazione della conoscenza dovesse essere più aperta e diventò un campione del movimento «open access», fondando E-Biomed, PubMed e la rivista «Public Library of Science» (PLoS).

L’uscita di Varmus fece infuriare i vecchi editori, che vedevano minacciato il loro monopolio, ma circa 10 anni dopo ha fatto scuola. Ora, oltre a PLoS, ci sono giornali come «arXiv», «GalaxyZoo» dedicato allo spazio, il blog MathOverflow e il Polymath Project per la matematica. A Berlino il virologo laureato ad Harvard Ijad Madisch ha fondato ResearchGate, un Facebook della scienza con un milione e mezzo di iscritti. Questi siti pubblicano ricerche come le vecchie riviste, chiedendo un contributo agli autori per pagare le spese, e consentono il dialogo e lo scambio dei dati. I colossi come «Nature» e «Science» rispondono che il proprio lavoro è insostituibile per autorevolezza, ma costa. I rivoluzionari di «open access» replicano che non è vero: loro diffondono studi importanti e fanno «peer review», ma consentono a tutti la pubblicazione e l’accesso ai dati. Così aggirano gli ostacoli delle baronie e favoriscono l’accelerazione delle scoperte, offrendo un modello di distribuzione della conoscenza che minaccia di seppellire i dinosauri dell’editoria scientifica.
 


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