La fragilità dell'Iit, l'istituto privato che comanderà la ricerca italiana
l'azienda su cui si basa il superprogetto ha offerto risultati fragili nelle tredici stagioni di vita.
Una delle ragioni della polemica su Human Technopole - la scienza privata finanziata dallo Stato nell'area dell'Expo di Milano, un'erogazione da un miliardo e mezzo in dieci anni -, esplosa dopo l'intervento a "Repubblica" del senatore a vita e scienziato Elena Cattaneo, è questa: l'azienda su cui si basa il superprogetto ha offerto risultati fragili nelle tredici stagioni di vita.
L'Iit, Istituto italiano di tecnologia, nato nel 2003 a Genova per volontà di Giulio Tremonti e iniziativa del suo consigliere Vittorio Grilli, è una struttura di ricerca direttamente sostenuta dal ministero delle Finanze: 50 milioni nel 2004, 100 milioni l'anno dal 2005 al 2014, 96 milioni nel 2015. A questo miliardo e 146 milioni di euro vanno aggiunti i beni della Fondazione Iri, valutati 130 milioni. Lo spirito iniziale di un istituto formalmente pubblico ma governato attraverso una fondazione privata - un inedito in Italia - è stato quello di una "revanche" sulla pubblica ricerca, frammentata per natura e per negligenza, già allora sottofinanziata, in mano a università ed enti difficili da controllare dalle amministrazioni centrali e ammalati, questo è innegabile, di elefantiasi burocratica e attitudini baronali. Il problema è che la risposta confindustriale dell'Iit non è stata all'altezza dell'aspirazione di rivincita coltivata.
Innanzitutto, i fondatori avevano dichiarato che dieci anni dopo la start up i 100 milioni l'anno necessari allo sviluppo sarebbero venuti dalle aziende. La decade è scaduta nel 2013 e l'ente è ancora Stato-dipendente. Se vogliamo far partire la "promessa" dall'anno di fondazione dei laboratori (2006), allora il distacco dal cordone ombelicale pubblico dovrà avvenire nel corso di questa stagione. La ricerca universitaria ha sempre accusato l'Iit di non aver mai pianificato né tanto meno coltivato una strategia progettuale. Il rapporto tra risultati e soldi ricevuti, è un fatto, è tra i più bassi tra gli enti italiani. Il 17 novembre 2015 la Corte dei Conti ha certificato che nella stagione precedente l'Istituto italiano di tecnologia aveva acquisito 43 nuovi contratti, per un controvalore complessivo di 2,8 milioni. Il finanziamento annuo statale - abbiamo visto - è di 100 milioni, quindi il contributo dell'industria privata all'Itt nel 2014 si è fermato al 2,8%. Decisamente basso. Nel 2015, ha dichiarato lo stesso istituto, è salito al 20 per cento. Siamo comunque lontani dalle produttività straniere: il gigante tedesco Fraunhofer - ricerca applicata - ricava il 70 per cento del suo fatturato da contratti con industrie e bandi per progetti.
Anche in Italia l'Iit non brilla nei confronti. Il Politecnico di Bari nel 2012 ha prodotto metà pubblicazioni annuali (con metà risorse, quindi un sostanziale pareggio) investendo, contemporaneamente, nell'istruzione di diecimila studenti. E le citazioni degli stessi articoli sono state 1,6 volte superiori, per Bari. La comparazione con il Consiglio nazionale delle ricerche, spesso avanzata, non è proponibile (non foss'altro per la giovane età dell'Iit).
Del miliardo e cinquanta milioni ricevuti dallo Stato nelle prime dodici stagioni, secondo l'ultima verifica della Corte dei Conti il patrimonio netto dell'Istituto "si è attestato nel 2014 su 498,522 milioni di euro". Oltre il 47 per cento, quindi, non è stato subito reinvestito in ricerca. "Ora che siamo a pieno regime per lavoro e lavoratori impegnati spenderemo ogni risorsa", assicura il direttore scientifico Roberto Cingolani. Negli ultimi tempi l'istituto genovese - fortemente difeso da una città assediata dalle molte crisi - ha iniziato a finanziare ricerche e lavori altrui, spesso universitari, mostrando una direzione confusa: ricercatori in proprio o subappaltatori? La governance dell'Iit è rimasta immutata dalla fondazione, in particolare per quanto riguarda il direttore scientifico, appunto Cingolani, già primo dirgente del laboratorio nazionale di Nanotecnologia di Lecce, e il chairman Vittorio Grilli, che nel frattempo è stato direttore generale del ministero dell'Economia e anche ministro dell'Economia con il governo Monti e da lì ha cresciuto, in posizione di privilegio, la sua creatura. In una vecchia interrogazione alla Camera il deputato (Pd) e fisico Giovanni Bachelet ricordò come in un rapporto commissionato dall'allora ministro dell'Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa Schioppa, emergessero critiche sull'attività scientifica dell'Istituto italiano di tecnologia: "Inferiore alle aspettative, frammentaria e disorganica rispetto alle principali aree di ricerca previste".
Il premier Renzi non ha ascoltato report (pubblici o nascosti) e ha visto in questo istituto con 1.440 persone (850 tra post doc, dottorati, borsisti), il 45 per cento di ricercatori stranieri (da 56 paesi), dodici centri di ricerca collaterali (anche al Mit e a Harvard), un'opportunità storica. Ha messo l'Istituto tecnologico al centro della ricerca italiana, facendo sue le parole interne: "La meritocrazia è uno dei nostri fondamenti e rappresenta uno dei requisiti essenziali per il raggiungimento dell'eccellenza e per attrarre risorse di alto livello da ogni parte del mondo. Abbiamo prodotto 360 brevetti e dodici start up e per Human Technopole, dopo esserci aperti alle tre università milanesi, al Cineca di Bologna, dopo aver fatto sessantasei incontri, siamo pronti a lavorare con università ed enti di ricerca pubblici".
L'ex ministro di Istruzione, Università e Ricerca, Maria Chiara Carrozza, bioingegnere industriale cresciuto attorno al polo di Pisa, dice: "Technopole è una bella opportunità per Milano, ma altre aree scientifiche, compresa Pisa, dovrebbero avere opportunità simili. E' tempo di riunire tutti gli enti di ricerca sotto un unico ombrello e delegare la programmazione e la selezione dei progetti a un'agenzia della ricerca, con valutazione tra pari".