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L’Italia studia poco e non cresce (abbastanza)

Che in Italia ci siano pochi laureati è cosa nota. Ma un’analisi un po’ più dettagliata delle statistiche Ocse contiene una notizia buona e una cattiva.

14/12/2018
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Corriere della sera

di Roger Abravanel

Che in Italia ci siano pochi laureati è cosa nota. Ma un’analisi un po’ più dettagliata delle statistiche Ocse contiene una notizia buona e una cattiva. La buona notizia è che anche da noi le nuove generazioni si laureano di più. Tra i 55 e i 64enni solo il 12% degli italiani è laureato, un po’ più di 1 su 10, mentre tra i 25 e i 34enni il numero è più che raddoppiato a 27%, quasi uno su tre è laureato. La cattiva notizia è che se ci paragoniamo con il mondo industrializzato, non solo gli italiani meno giovani sono il fanalino di coda delle lauree, ma tra i più giovani il gap si sta allargando. Perdiamo terreno nei confronti di tutta la Ocse, e colpisce quanto ne perdiamo nei confronti di un Paese come la Corea che parte da livelli simili ai nostri per i meno giovani, ma che per i giovani ha conquistato il record mondiale assoluto: 7 giovani coreani su 10 sono laureati.

Il gap di laureati si riflette appieno sulla nostra economia che da trent’anni cresce meno delle altre. Le statistiche che collegano la crescita di un Paese con il suo capitale umano abbondano e non è il caso di riprenderle qui. Non si tratta solo di laureati impiegati in ricerca&sviluppo nelle aziende manufatturiere. Dagli anni 80 siamo passati da un’economia manufatturiera a un’economia di servizi, dove l’innovazione è nel miglioramento dei processi e del rapporto con i clienti quando si offre un servizio. Pensiamo a come è cambiata la distribuzione alimentare dalle migliaia di piccoli negozi a poche grandi aziende che impiegano laureati come capi negozio, direttori di acquisti e marketing dei prodotti, informatica e logistica. Nel negozio di un salumaio di laureati se ne vedono pochi.

Le economie che da anni crescono di più sono quelle che riescono a sfruttare meglio questo passaggio da economia industriale a post-industriale e a fare crescere aziende grazie al loro capitale umano (laureati e diplomati). La domanda di laureati cresce e le nuove generazioni hanno un reddito superiore a quello dei propri genitori e dei diplomati. Non stupisce la corsa alla laurea degli ultimi 30 anni da parte di milioni di giovani in tutto il mondo pronti per impegnarsi in una selezione sempre più competitiva per entrare nelle migliori università che garantiscono i migliori posti di lavoro. Studiano in maniera sempre più impegnativa e cercano esperienze extrascolastiche per migliorare il proprio profilo. Non stiamo parlando solo dei laureati con master in Ingegneria informatica, ma anche di lauree triennali che portano laureati nel mondo del lavoro a 21 anni e con esperienze precedenti di studio-lavoro. Più di quanto «sanno» conta quanto velocemente riescono a inserirsi in azienda, a risolvere problemi in autonomia e a lavorare con gli altri (le famose soft skills). Il know howche conta glielo fornisce l’azienda.

Sembra tutto molto semplice e chiaro, ma allora perché da noi i laureati sono pochi e crescono meno che altrove? Il «diritto allo studio» è un falso problema: le rette sono tutt’altro che proibitive (meno di duemila euro l’anno) e uno studente con pochi mezzi che passa il test di selezione al Politecnico le paga in misura molto ridotta e viene ospitato nelle case dello studente. I veri problemi sono due, che si rafforzano a vicenda: manca la domanda di laureati da parte delle aziende e l’offerta di laureati da parte delle università è inadeguata.

Formazione

Dotati delle competenze giuste, i ragazzi aiutano le aziende ad essere

più competitive

Le aziende italiane non assumono molti laureati perché sono troppo piccole. Una piccola azienda non ha bisogno di laureati, lavora l’imprenditore che assume periti industriali più o meno specializzati; il commercialista segue la parte fiscale e contabile, l’informatica la segue uno studio esterno, e la direzione personale non serve: le paghe le fa un servizio esterno. Sono le medie-grandi aziende che ne hanno bisogno, ma purtroppo «piccolo è bello» ha imperversato per anni e le vittime sono stati i laureati. I tagli alla spesa pubblica riducono poi le opportunità di assunzione nella Pubblica amministrazione.

La seconda ragione è la non ottima qualità della formazione. I laureati in Ingegneria al Politecnico di Milano e in Economia alla Bocconi trovano sempre lavoro e gli stipendi sono migliori di quelli dei non laureati. Questo perché sono più bravi a progettare un software o conoscono meglio la finanza? Non necessariamente. La ragione è che i datori di lavoro sanno che sono stati selezionati duramente, sanno ragionare bene, risolvere i problemi e hanno acquisito (in verità poche) soft skills. Accade anche in un’altra decina di università italiane ma non in gran parte delle altre 60, i cui laureati sono sottoccupati e disoccupati, ma non solo perché ci sono pochi ingegneri e troppi avvocati e laureati in Scienza delle comunicazione (i laureati in Lettere e Scienza delle comunicazioni delle top 10 trovano lavoro), ma perché le università insegnano il problem solving a livelli elementari e zero soft skills.

Questi due problemi si rafforzano a vicenda: se le aziende aumentassero la domanda si contenderebbero i pochi laureati migliori con stipendi migliori (oggi un neo laureato del Politecnico guadagna meno di un neo ingegnere cinese) e ci sarebbe una salutare corsa alle università migliori, stimolando l’aumento della qualità. Se le università sfornassero laureati con le competenze giuste, le migliori aziende aumenterebbero la loro competitività e l’economia crescerebbe.

Sviluppo

Le economie che crescono di più sono quelle che utilizzano meglio il capitale umano

Come innescare il circolo virtuoso domanda-qualità dell’offerta? Le aziende italiane che vogliono crescere devono valorizzare meglio i laureati che oggi preferiscono a loro come datori di lavoro le filiali delle multinazionali. Ma ci vogliono anche le policies giuste per far fare il salto di qualità alle università, a partire dalle 10 migliori: più quota «premiale» di finanziamenti alle università migliori, più autonomia nella selezione e retribuzione dei docenti, maggiore finanziamento privato, didattica più orientata a insegnare le competenze chiave del ventunesimo secolo (problem solving, team work, comunicazione). Una rivoluzione nelle università può davvero riportare la crescita nel Paese.


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