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Il Riformista-Se sono gli ordini professionali a decidere il percorso formativo

ISTRUZIONE. E RIFORME DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA Se sono gli ordini professionali a decidere il percorso formativo La "riforma del sistema di accesso agli ordini professionali" guarda...

04/01/2006
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Il Riformista

ISTRUZIONE. E RIFORME DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA
Se sono gli ordini professionali a decidere il percorso formativo

La "riforma del sistema di accesso agli ordini professionali" guarda "soprattutto al futuro dei nostri giovani e alla tutela degli interessi dei cittadini, che beneficeranno di professionisti più qualificati". Questa è la retorica con cui si esprime il comunicato stampa del ministro dell'Istruzione in merito al regolamento sull'accesso agli ordini professionali approvato poco prima di Natale dal Consiglio dei ministri. Nessuno conosce i contenuti precisi del regolamento che sono stati secretati, in attesa di un parere del Consiglio di Stato, ma lo stesso comunicato stampa ne fornisce un'anticipazione. E naturalmente non c'è nulla nel regolamento che abbia a che fare con il "futuro dei nostri giovani" o gli "interessi dei cittadini".
Si stabilisce, ad esempio, che la laurea è condizione necessaria per l'iscrizione all'albo dei giornalisti. Quale beneficio "ai cittadini" può mai risultare dal fatto che chi scrive sui giornali abbia conseguito un titolo universitario? Molti dei migliori giornalisti italiani non sono laureati. Non di rado si tratta di studenti universitari falliti. Il loro successo in una professione intellettuale serve a ricordare alle università che gli esami universitari lasciano spesso passare i più conformisti e non premiano l'autonomia intellettuale e la creatività. Rendere obbligatoria la laurea per un'attività che non riguardi direttamente la salute e la sicurezza delle persone non porta alcun vantaggio al pubblico degli utenti e non giova certo all'insegnamento e alla ricerca universitaria, che prosperano invece quando sono soggette a un regime di concorrenza. Ma nel regolamento approvato dal governo si va ben oltre: i titoli accademici che consentono di scrivere sui giornali dovranno avere contenuti disciplinati da convenzioni con l'ordine dei giornalisti che in tal modo potrà condizionare l'insegnamento universitario. Questo significa che nemmeno il più brillante laureato in lettere, in storia, o scienze politiche, potrà scrivere sui giornali, a meno che non abbia superato bel po' di esami in "teoria e pratica del giornalismo", appositamente disegnati secondo le prescrizioni dell'ordine. Quale dei grandi giornalisti attuali o del passato, laureati o non laureati, corrisponde all'identikit tracciato da queste disposizioni? Tutto sembra invece disegnato per impedire l'accesso dei giovani più intelligenti e creativi alla professione di giornalista. Ma soprattutto quale interesse pubblico risulta tutelato da queste disposizioni?
Purtroppo questo non è il solo contenuto illiberale e controproducente del regolamento governativo. Si interviene pesantemente per rendere più rigidi e pertanto meno innovativi i percorsi didattici. Ad esempio non sarà più possibile per un bravissimo laureato in fisica proseguire gli studi di secondo livello in ingegneria. O meglio, il decreto interviene per proibire a un laureato di secondo livello in ingegneria che provenga da una laurea di primo livello in fisica, di iscriversi all'albo degli ingegneri. Si tratta di una proibizione che ha un pesante valore simbolico: il governo sembra voler scoraggiare una possibile soluzione del problema principale posto all'Italia dalla riforma del 3+2, che è la difficoltà di formare una minoranza di laureati in ingegneria sufficientemente preparati nelle scienze di base, per progettare in maniera creativa. Saranno similmente proibiti analoghi percorsi, assolutamente prevalenti in tutti i paesi industriali, come una laurea di primo livello in matematica seguita da una laurea di secondo livello in scienze attuariali, o in economia, oppure una laurea di primo livello in chimica seguita da una laurea di secondo livello in biologia. Viene così rinnegata una delle caratteristiche innovative del nuovo ordinamento didattico che è (o meglio era) la possibilità di incrociare percorsi diversi per raggiungere una formazione più adatta a rispondere alla sfida dell'innovazione. Si aggrava invece la parcellizzazione e la rigidità degli studi universitari che devono adattarsi a figure professionali univalenti e antiquate, incapaci di evolversi secondo le esigenze di sviluppo della scienza e della tecnologia.
C'è una logica in tutto questo? Certamente non è quella di tutelare gli interessi dei cittadini o di guardare al "futuro dei nostri giovani". E' invece, la logica delle corporazioni accademiche e professionali che prosperano solo in condizioni di monopolio, e che rappresentano un peso per la società. E infatti, secondo il comunicato ministeriale, lo schema del regolamento è stato proposto da una commissione in cui erano rappresentate le "conferenze dei presidi" di facoltà e "per la prima volta" gli ordini professionali. Presiedeva questa commissione il sottosegretario Siliquini. Si è trovata, insomma, la combinazione giusta per saldare gli interessi degli ordini professionali a mantenere e ad estendere il monopolio sulle attività di loro competenza, con quelli delle corporazioni accademiche di settore che si fanno scudo del valore legale del titolo di studio per difendere l'importanza delle loro discipline e il loro monopolio su frammenti più o meno ampi dell'ordinamento didattico.


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