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Il problema non è il titolo di studio ma i baroni

Benedetto Vertecchi

28/01/2012
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l'Unità

Mi auguro che l’accantonamento, sia pure temporaneo, della proposta di intervenire sul valore legale dei titoli di studio sia solo la premessa del suo abbandono. Ancora una volta, di fronte alla crisi innegabile che attanaglia le nostre università, la soluzione è stata trovata in una cura sintomatica. Non si interviene sulle cause del disagio profondo che limita la capacità dei nostri atenei di assumere quel ruolo propulsivo che dovrebbero avere nello sviluppo del Paese e ci si trincera dietro interventi di facciata, che lasciano che il male annidato nel sistema degli studi superiori continui a crescere. Nessuno dubita che il valore legale dei titoli di studio appaia, nelle condizioni attuali, molto appannato, e che non si possa avere nei confronti delle certificazioni accademiche la fiducia che ne dovrebbe accompagnare il rilascio. In queste condizioni abolire, o anche limitare com’era nelle proposte avanzate nei giorni passati, il valore legale dei titoli equivarrebbe a lasciare che quanti hanno operato per disgregare la cultura accademica, trasformando le università in centri di potere, abbiano le mani libere per proseguire nella loro opera disgregatrice. Non serve dunque intervenire su patologie certamente fastidiose, ma che rappresentano solo una conseguenza vistosa della caduta di una tensione insieme culturale e morale nelle nostre università. Occorre impegnarsi per rendere, se non impossibili, almeno drasticamente più difficili le pratiche che sono all’origine della decadenza degli studi e del livello non eccelso della ricerca. Mi rendo conto che è difficile dire ciò che sto dicendo, e che si rischia di fare tutt’uno dei molti che s’impegnano per onorare la loro condizione di studiosi e di quanti appaiono presi da tutt’altre faccende. Individuare le cause del deterioramento delle attività accademiche costituisce la condizione per svolgere al meglio i compiti collegati all’insegnamento superiore e alla ricerca scientifica. È da una nuova qualificazione delle attività accademiche che può derivare una rinnovata fiducia nei titoli di studio. Non è diverso il problema se si nega la validità delle notazioni valutative .Non tener conto dei punteggi attribuiti si presenta come una misura di moralizzazione per contrastare l’inflazione di voti positivi attribuiti in sede d’esame (talvolta in discipline cui corrispondono solo vaghi tentativi di attività didattica), mentre finisce col nascondere l’effettiva differenza di qualità esistente tra le sedi e spesso all’interno della stessa sede. Nessuno si lascia ingannare da notazioni valutative manifestamente irrealistiche, mentre sarebbe più difficile prendere le distanze da giudizi indifferenziati, che coprono pudicamente risultati che non si comprende come possano essere accettati. Quello delle notazioni valutative potrebbe essere il punto di partenza di un percorso di moralizzazione della vita accademica ben più significativo degli interventi volti a rimuovere manifestazioni evidenti, ma che non possono essere considerati altro che l’effetto di quanto non sta funzionando nelle nostre università. Si possono pensare molte soluzioni per restituire credibilità alle certificazioni accademiche senza coinvolgere in un intervento distruttivo i titoli di studio: l’autonomia delle sedi va salvata, ma non si può consentire che diventi un feticcio. Chi è contrario al valore legale dei titoli ricorda che in altri Paesi esistono condizioni diverse. È vero. Ma è anche vero che in Italia, se abbiamo un sistema degli studi che in qualche modo (potrebbe farlo meglio) risponde alla domanda sociale di istruzione, ciò si deve all’intervento dello Stato. Non sono stati i privati a sostener la crescita degli studi (a tutti i livelli). La perdita del valore legale dei titoli sarebbe un regalo per chi, a fronte di una manciata di spiccioli investiti, ha raccolto vantaggi sostanziosi. ❖
 


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