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Il Paese che offende il sapere

Non è solo un paradosso o una beffa, sia pure clamorosa. È molto peggio

08/01/2014
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Il Mattino

N.Santonastaso

Non è solo un paradosso o una beffa, sia pure clamorosa. È molto peggio. Perché l'ennesimo tiro mancino ai danni degli insegnanti italiani, già malpagati e da un paio di anni costretti anche a vedere i loro stipendi bloccati per via dei tagli imposti dalla spending review, vuol dire soprattutto una cosa. La bocciatura, senza esami di riparazione, di un Paese che prima dà e poi toglie; che prima riconosce i diritti maturati con l'anzianità da chi siede in cattedra e poi con la stessa, incredibile naturalezza, li nega. Per carità, di fronte al sacrosanto dovere di tenere i conti pubblici in ordine non c'è argomento che tenga. C'è però il dovere di domandarsi perché una categoria che non ha mai nuotato nell'oro e che si è vista scaricare addosso i limiti di un'autonomia scolastica piena zeppa di contraddizioni sul piano gestionale, debba essere accomunata a chi per professione ha sprecato, dilapidato e umiliato i soldi dello Stato. E, in tanti, troppi casi, l'ha fatta franca. E non è nemmeno sbagliato domandarsi perché i professori, a qualsiasi livello appartengano, vengano ancora considerati più come numeri del sistema che non come protagonisti indispensabili della crescita del Paese. È l'effetto, anche per responsabilità precise della categoria, di mancati investimenti in termini di arricchimento professionale (non solo, cioè, di strutture). E più in generale di una scelta, molto probabilmente consapevole, che ha relegato per anni il mondo della scuola ai margini dei processi di sviluppo che invece un Paese moderno ha il dovere di incoraggiare e sostenere. > Segue a pag. 16 Segue dalla prima Nando Santonastaso Di sicuro loro, gli insegnanti, hanno imparato sulla loro pelle il valore di un aumento di stipendio anche di poche decine di euro: lo sanno perché misurano ogni giorno, nel rapporto con i loro allievi, la fatica di insegnare le regole dello Stato, il rispetto delle istituzioni, il diritto-dovere di guardare al futuro con speranza anche quando tutto sembrerebbe imporre la rassegnazione al peggio. Nessuno riuscirà mai a valutare quanto questo sforzo meriterebbe di essere ricompensato: eppure sarebbe giusto provarci, in un Paese che non riesce a riconoscere quasi mai il merito. Perché in fondo di questo si tratta: chiedere la restituzione di 150 euro a chi prepara, aggiorna e valuta i saperi dei nostri ragazzi, costruendo le fondamenta di uno Stato moderno e all'altezza delle nuove sfide che l'attendono, è un atto di profonda ingiustizia. Se per una volta la politica ne prendesse atto, facendo non tanto un'eccezione alla regola che impone a tutti (ma saranno davvero tutti, alla fine?) di tirare la cinghia sarebbe un bel segnale. Resta solo da chiedersi dov'era, però, la politica quando certi meccanismi finanziari venivano discussi e decisi. Loro, gli insegnanti che in certe scuole del Sud combattono ancora perché i riscaldamenti funzionino più delle ore concordate in base alle tariffe-orarie antispreco, o perché i sussidi didattici loro assegnati siano realmente funzionanti, hanno imparato negli anni che annunci e promesse non bastano più ai loro studenti. Sanno per esperienza quotidiana che la sfida che li attende prescinde persino dalle parole, dai testi e dalle interrogazioni: la loro è la scuola dell'esempio, della testimonianza diretta e per questo ancor più vera. Tradirla, negando loro qualche spicciolo in più per giunta dovuto, è come negare la loro missione. Non si può.


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