I numeri del concorsone
Undicimila posti a disposizione per oltre 320 mila persone: è questo il rapporto fra offerta e domanda nel mondo della scuola, che emerge dal primo concorso pubblico dopo quasi 15 anni
Roberto Weber
Undicimila posti a disposizione per oltre 320 mila persone: è questo il rapporto fra offerta e domanda nel mondo della scuola, che emerge dal primo concorso pubblico dopo quasi 15 anni. Ma non basta. All’interno di questa platea c’è un’ulteriore articolazione rappresentata da una vasta componente di precari che dentro la scuola ci sono da tempo e che deve misurarsi con il «nuovo» che arriva. Dunque una «meglio gioventù» che preme per entrare, a cui si sovrappone un’altra ex «meglio gioventù» che dentro le strutture formative della nostra repubblica c’è già da tempo, ma in termini di precarietà. Il nuovo «diritto» al lavoro che cerca di affermarsi e il vecchio «diritto» al lavoro che vuol trovare legittimazione. In mezzo c’è la scuola e con essa «il frutto» delle famiglie italiane che naturalmente per i loro figli desiderano il meglio sotto il profilo formativo. Su un altro piano ancora leggermente più astratto e più lontano nel tempo ci sono le imprese, le amministrazioni pubbliche, c’è il sistema paese con tutta la sua complessità che fra cinque, dieci, quindici anni a questo serbatoio formativo attingerà per aumentare o semplicemente mantenere la sua capacità competitiva. Giusti diritti e aspirazioni individuali, il destino di una nuova generazione, in buona misura il potenziale competitivo del Paese, tutte a ruotare intorno a questa benedetta cosa che chiamiamo «scuola pubblica», dalla quale siamo passati tutti e alla quale dobbiamo la prima fondamentale «tessera» del nostro stesso statuto di cittadinanza. La decisione del ministero di riaprire i concorsi pubblici da un lato è positiva, perché pompa nuove energie in un sistema che ne ha bisogno (gli insegnanti italiani sono mediamente fra in più vecchi d’Europa), dall’altro è penalizzante perché per moltissimi insegnanti «precari» la «normalizzazione» diventa un miraggio. A tutto ciò siamo arrivati con prassi decennali e responsabilità condivise, grazie a governi (anche quelli di centro-sinistra) che hanno consentito e sindacati che hanno tollerato. E tuttavia è una situazione che rispecchia quelle degli infiniti «mercati» del lavoro che hanno proliferato e continuano a proliferare nel nostro Paese. Se a ciò sommiamo la attuale fase congiunturale, fatta di tagli alla spesa pubblica e di allungamento della vita lavorativa (anche nella scuola), capiamo che gli errori di ieri su tutti quello non aver mai messo la questione formativa ai vertici delle priorità del paese diventano pressoché irrisolvibili. Cosa serve? In primo luogo serve un po’ di pazienza; è pressoché inutile «investire» della questione questo governo che ha limiti dettati dalla sua scadenza e più in generale dalla logica nobilmente ragionieristica che lo caratterizza. Poi serve domani una effettivamente diversa sensibilità politica e la messa in campo di un processo di intervento dai caratteri sovversivi. Se voglio tutelare il patrimonio già sedimentato dentro la scuola italiana (che al di là di quello che raccontano le statistiche, a mio avviso resta molto elevato), se desidero introdurvi un ulteriore tasso di qualità che abbia una base ampia e privilegi il merito, se al tempo stesso voglio far sì che chi ha già dato in condizioni di incertezza e di precarietà trovi una «restituzione», devo fare in modo che tutti facciano un passo indietro e devo stipulare un nuovo patto con chi va a formare i nostri figli. C’è un prezzo da far pagare, ma se viene fissato in termini di garanzie e tutele certe per tutti i soggetti in campo, credo il traguardo sia raggiungibile. Al solito servono autorevolezza, ingegnosità, consapevolezza del momento che attraversiamo, molto anticonformismo e tanta, tanta intelligenza politica. Tutta roba che non si trova dietro all’angolo.