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Come si misura una buona scuola

Andrea Bagni

03/12/2010
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il manifesto

Una sera, a cena con amici non insegnanti, il tema della discussione diventa questo: com'è che voi della "sinistra radicale" non capite che oggi l'egualitarismo degli stipendi, il rifiuto della meritocrazia, sono roba di destra. La sinistra è per le liberalizzazioni e la valutazione del merito. Non è vero che non si possono valutare gli insegnanti: ci sono parametri e indicatori di qualità, usati in tutto il mondo - basta non pretendere la perfezione. Non capite che oggi chi domina la scena è l'individuo con tutte le sue differenze, non le masse o gli apparati. Dobbiamo lavorare perché ci siano parti opportunità di partenza nella gara, ma la competizione è il dinamismo moderno di cui abbiamo bisogno, soprattutto per i giovani. Insomma basta difendere i carrozzoni dove chi non lavora o fa schifo guadagna quanto chi si impegna e vale. Un giovane precario mi aveva già detto durante un cambio di ora che la salvezza della scuola sarà quando i dirigenti potranno scegliersi gli insegnanti e le scuole con gli insegnanti migliori avranno più iscrizioni e denaro. Allora i prof bravi saranno ricercati, quelli pessimi i saranno soprannumerari, altro che garantiti dall'anzianità. 
Adesso, se arriverà la sperimentazione della Gelmini: un mese in più di stipendio ai bravi, scelti da due prof del collegio insieme al dirigente e a un genitore "osservatore". Come faranno a scegliere, chi sono i bravi?


Quella sera a cena sono rimasto un po' così così, ma il tema esiste ed è importante. 
Peraltro sono convinto da tempo che una certa sinistra novecentesca, masse-partito-stato bisogni materiali e uguaglianza come uguagliamento, sia superata. Ma la Thatcher diceva, non esiste una cosa come la società, esistono gli individui, e questo mi sembra ancora il pensiero della destra. Io penso che esistono le persone nella loro singolarità, ma esistono come tali nelle loro relazioni interpersonali, politiche e culturali. All'interno di un tessuto bene o male comunitario - con tutti i rischi che il termine comporta: di comunità chiuse, di appartenenze assolute, di guide gerarchiche, di religioni sacralizzate, separate dall'umano. E tuttavia non si è liberi fuori da relazioni, vincoli etici e affettivi, un tessuto civile e politico. Si è soli, impauriti e incazzati, in guerra col mondo. Magari è dinamismo, ma da giungla.


Qui, detto per inciso, forse è anche la nuova frontiera della dimensione politica. Per Obama come per Vendola. Rappresentare un orizzonte ancora di liberazione collettiva, inventare un linguaggio che tocchi i corpi e la vita delle donne e degli uomini, ma misurarsi con un deserto di corpi intermedi, con una polis spoliticizzata, con il rischio di lasciare sulla scena solo il leader e poi tutte le anime al seguito del carisma. Nel mezzo allora resterebbero i vecchi apparati di (ex) partito, adesso comitato elettorale. E la sfera della rappresentanza sarebbe nelle loro mani. Non una bella cosa.
A me sembra che nodi del genere riguardino, in un certo senso, anche la scuola. Come politicità delle relazioni orizzontali.
Se penso a me stesso, lo sento il bisogno di un riconoscimento da parte degli altri. L'idea di essere ingranaggio di una megamacchina burocratica e protetta dalla corporazione mi fa semplicemente orrore. Penso che la "contraddizione rivoluzionaria" oggi sia il lavoro creativo di donne e uomini, il loro desiderio di esistere in modo singolare, libero, capace di inventare la propria vita nel mare aperto della società esplosa. Però il mio desiderio di valutazione del merito è molto relazionale, diciamo così: i miei studenti (soprattutto ex studenti, con i propri è troppo facile o troppo difficile), i colleghi, i genitori con cui parlo e che mi raccontano. La società fluida e informale, ma non informe. Il dirigente scolastico tutto sommato mi interessa se è persona che stimo, cioè solo dentro una relazione che gli dà autorità. L'amministrazione, il ministero, c'entrano molto poco. Chi sa cosa ritengono che sia un buon insegnante e una buona scuola. 


È vero tuttavia che l'istituzione può monitorare il sistema sulla base di dati oggettivi, indicatori statistici. Ed è vero che sarebbe utile. Che destino hanno lontano da noi, nel tempo, i nostri studenti. Qual è il loro percorso nella società e nel lavoro. Quali conoscenze hanno acquisito e applicano. Certo, la scuola è solo un segmento iniziale che fa parte di una storia molto più lunga. E ci sarebbero un mare di altre variabili non scolastiche da considerare, che fanno formazione e incidono sui destini. La misurazione del percorso professionale dei giovani, poi, non direbbe gran che sulla qualità del loro essere cittadini - vai a misurarla la cittadinanza. E nella valutazione dei singoli apprendimenti quante variabili da tenere presenti: condizioni sociali di partenza, famiglie, esperienze personali ed elementi biografici, conoscenze non prestazionali, capacità e competenze da misurare non si sa come. Insomma le solite obiezioni. Però gli amici mi direbbero, non c'è la perfezione dunque non si fa nulla? Peraltro è vero che quei dati sarebbero utili informazioni su cui ragionare, e sono raccolti ed elaborati in tutta Europa - anche se non è chiarissimo quanto servano a produrre una formazione migliore. Ha scritto Bottani anni fa che negli Stati Uniti i test sulle conoscenze hanno sviluppato la capacità di superare i test, non le conoscenze. 


Il guaio è che su queste costruzioni statistiche necessariamente imperfette e incerte, si vogliono costruire non solo interventi di sistema, ma gerarchie, carriere, differenziazioni stipendiali. Quelle sì solide e certe. Sarebbe un disastro perfetto. Perduta la coscienza del limite di quelle valutazioni la scuola distruggerebbe la sua dimensione di professionalità collettiva. E il valore dell'individuo finirebbe per essere declinato tutto nella forma dell'individualismo, della competizione di mercato. 
Possibile che non si riesca a pensare una valorizzazione di sé, del proprio lavoro, attraverso la collaborazione e non la competizione. Possibile che l'unico riconoscimento sociale che si immagina sia un qualche premio personale in busta paga - o fuori busta, come fa il privato che ama soprattutto la fedeltà, altro che il merito: domandatelo a Marchionne. Quando penso a me stesso, sarò un po' scemo ma mi sembra non mi interessi gran che una gerarchia o un privilegio di stipendio. Anzi, quella roba lì (se non condivisa) mi allontanerebbe da quelle/i da cui vorrei essere riconosciuto. Magari è un po' infantile ma mi piacerebbe qualcosa come una comunità scientifica, di pari, modello quella che si manifesta nelle penne stilografiche che in fila i colleghi di Nash in A beautiful mind gli appoggiano sulla scrivania. E lui è uno sconfitto della competizione. Sognare per sognare, quello almeno è un bel sogno.


 


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