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Cidi: La nostra scuola buona

“Nel documento del governo è assente la funzione che la Costituzione assegna alla scuola, ossia quella di rimuovere gli ostacoli per promuovere l’istruzione di tutti e di ciascuno. Si avanzano proposte che appaiono inadeguate di fronte alle difficoltà drammatiche che segnano la realtà quotidiana.

15/11/2014
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Retescuole

L’aver messo la scuola al centro di una discussione che intende coinvolgere l’intero Paese è un atto di discontinuità col passato che non può passare inosservato.

La messa in ruolo di quasi 150.000 precari è una scelta da apprezzare e condividere. Pur se la sua accelerazione è anche una risposta alla procedura di infrazione per la non corretta applicazione della direttiva 1990/70/CE relativa al lavoro a tempo determinato, questo piano straordinario di reclutamento risponde certamente alle necessità immediate. Ma è anche un’assunzione di responsabilità nei confronti della scuola tutta, che non ha mai potuto contare davvero su questa massa di giovani docenti che la attraversano, i quali non possono fare il minimo investimento, nemmeno ideale, sulla propria professione e sul proprio ruolo. Siamo di fronte a un enorme spreco di energie, umane e professionali. Ci auguriamo quindi che a questa, che per ora è ancora una dichiarazione, seguano fatti concreti.

Un grosso limite del piano del governo è che non emergono con sufficiente chiarezza le priorità da affrontare. La mancanza di una gerarchia sulle cose da fare espone la scuola a tutte le possibili “scelte obbligate” derivanti dalla legge di stabilità, che rischiano di tradursi, ancora una volta, in una serie di tagli lineari.

Nel documento è assente la funzione che la Costituzione assegna alla scuola, ossia quella di “rimuovere gli ostacoli” per promuovere l’istruzione di tutti e di ciascuno. Si ignorano la complessità e lo spessore problematico di ogni intervento didattico efficace: una professionalità che affronta simultaneamente le dimensioni relazionale, disciplinare, collegiale, sperimentale, organizzativa e progettuale, da coniugare con le specificità dei contesti. Si avanzano proposte che appaiono inadeguate di fronte alle difficoltà drammatiche della realtà quotidiana. Senza una consapevolezza piena della molteplicità di queste dimensioni viene prospettata una scuola che

non sa immaginare il futuro, unicamente schiacciata sul presente nelle sue forme dominanti della produzione economica e della tecnologia, dove il presente è punto di arrivo definitivo e la conoscenza sembra orientata alla sua conferma e al suo mantenimento. In definitiva manca un’idea di cultura, di apprendimento che deve calarsi nella quotidianità del fare scuola e da cui tutto deve discendere.

Quello che non c’è

Ecco, in estrema sintesi, l’elenco di quello che avremmo voluto trovare nel documento del governo, e che invece manca del tutto.
Un’affermazione forte sul valore della cultura e dell’istruzione. Non basta dire che con la cultura “si può anche mangiare”, perché questa affermazione, pur se contraddice chi afferma il contrario, rimane tuttavia su quello stesso piano.

Bisogna dire che con la cultura “si cresce”.

Una riflessione sulla dispersione e sui modi di apprendere dei ragazzi. Ci sembra molto grave che questo aspetto non ci sia. L’intervento per ridurre la dispersione scolastica deve essere considerato la priorità, perché tutti i dati nazionali e internazionali ci dicono che su questo fronte c’è una vera e propria emergenza.
Di conseguenza, le scelte di bilancio ne devono tenere conto.

Un riferimento alla scuola dell’infanzia.

Essa continua a essere considerata la Cenerentola dell’organizzazione scolastica in Italia, ma, come sa bene chi si occupa di istruzione, è su una buona scuola dell’infanzia che può crescere una scuola che riduca le differenze e alzi il livello di tutti.

Un discorso chiaro sull’organizzazione della scuola elementare. Non si può più fare a meno di porre rimedio al pasticcio creato, a partire dal 2008, dai governi Berlusconi e dai ministri Moratti e Gelmini, che hanno distrutto l’organizzazione e quindi la qualità della scuola elementare, fino a quel momento fiore all’occhiello della scuola italiana. Anche se l’ampliamento degli organici è sicuramente un fatto positivo dopo gli sciagurati tagli gelminiani, così come lo sono alcuni obiettivi dichiarati, in primis l’aumento dell’offerta di tempo prolungato e tempo pieno nella scuola primaria.

La centralità di una buona didattica, che va ribadita e rinforzata attraverso l’incentivazione della formazione in servizio. Sia le vecchie che le nuove tecnologie – la carta e la penna, come il tablet – sono all’esclusivo servizio dei processi di apprendimento/insegnamento. Nessuna di esse ha in sé potenzialità risolutive o taumaturgiche; la loro adozione non può dipendere, nella progettazione educativa, da logiche commerciali o da interessi di parte. Le nuove tecnologie vanno utilizzate per rinforzare i processi cognitivi, favorire gli scambi, alimentare modi nuovi e più stimolanti di apprendere e di comunicare, per favorire il dialogo, la cooperazione, il superamento degli stereotipi. In questa ottica si colloca anche l’utilizzo ‘intelligente’ dei social network.

Un rapporto con il mondo del lavoro che non sia un ripiego al ribasso per chi non ce la fa. Il tema del rapporto tra cultura della scuola e cultura del lavoro sta assumendo un ruolo sempre più centrale nel dibattito che si è aperto sulla innovazione del nostro sistema d’istruzione. Bisogna individuare un nuovo rapporto tra scuola e lavoro, non come una semplice giustapposizione di

esperienze ma come una vera, intensa e nuova interazione tra le due culture.

La funzione docente, i nodi non sciolti

Nel documento governativo ampia parte della proposta è riferita ai docenti, sia per quanto riguarda l’assunzione dei nuovi che per l’ipotesi di riorganizzazione della “carriera”, che viene presentata enfaticamente come una vera e propria rivoluzione.

Proviamo a esaminare i diversi punti per arrivare a un giudizio complessivo alla luce della nostra idea di buona scuola.

Reclutamento e formazione in ingresso

Per quel che riguarda i nuovi assunti, ancora una volta una massa di insegnanti composita ed eterogenea, non si può affrontare il tema della loro utilizzazione solo in termini di numero e distribuzione.

Per la formazione iniziale poi, è importante l’affermazione, contenuta nel documento, della centralità del concorso, che resta costituzionalmente la via maestra per l’assunzione in servizio. Certamente però la formazione degli insegnanti non può essere affidata prevalentemente all’università, ma si deve riconoscere il ruolo fondante e decisivo della scuola stessa in tutti i passaggi della formazione, attraverso un coinvolgimento significativo degli insegnanti esperti.

Articolazione dell’organico

Non è del tutto chiara la distribuzione dei compiti dell’ “organico dell’autonomia”: come avverrà il bilanciamento, ad esempio, tra ore di supplenza e ore di supporto all’offerta formativa? e come queste saranno inquadrate in un orario di servizio settimanale, per quanto più o meno flessibile? Sarà adottata una soluzione

unica, o questa sarà materia di progettazione formativa delle istituzioni scolastiche? Il rischio per i nuovi assunti è quello di un ruolo da tappabuchi non certo gratificante né qualificante, una sorta di precariato didattico a tempo indeterminato. Tuttavia, per quanto la memoria delle D.O.A. degli anni ’80 e ’90 non sia felice, la disponibilità di un organico funzionale potrebbe rappresentare un’opportunità in grado di fornire un valido strumento all’autonoma progettazione delle scuole, purché non venga piegata a logiche estrinseche e puramente strumentali.

Carriera, crediti e valutazione

Questa è la parte decisamente più discutibile del documento del governo. Se da un lato è positiva l’enfasi sulla formazione come leva di crescita professionale, dall’altro è sicuramente molto discutibile l’introduzione di criteri meritocratici, per giunta a costo zero, dato che è detto chiaramente che il monte stipendi resterà invariato. Il rischio che si corre è la distruzione del residuo di collegialità e cooperazione che sopravvive nella scuola, di fronte a un meccanismo in cui è previsto che un docente su tre resti indietro. L’insegnamento appare, secondo una visione vetero-accademica dura a morire, un’attività sostanzialmente individuale e individualistica, in cui sarebbe estremamente facile separare il grano dal loglio, addirittura spingendo una quota di docenti ad una emigrazione forzata per assicurarsi l’aumento di 60 euro. Proprio questo, per così dire, liberismo meritocratico appare una delle proposte più francamente risibili del documento: come immaginare un docente che, insoddisfatto perché costretto a lavorare in una scuola dove i colleghi sono troppo “bravi”, vada a cercarne un’altra dove emergere, per potersi assicurare tranquillamente il sospirato bonus?…

Anche il meccanismo dell’accesso alla premialità appare assolutamente incongruo, soprattutto se basato sulla singola istituzione scolastica. Perché automaticamente un terzo di un collegio docenti dovrebbe restarne escluso? Piuttosto che fissare un criterio basato su una classifica rigida, sarebbe più opportuno ipotizzare delle soglie che possano rappresentare un traguardo di miglioramento per tutti i docenti: la crescita del sistema non può nascere dalla concorrenza, ma dalla cooperazione e dall’impegno comune.

Infine restano alcuni aspetti da precisare meglio nell’attuazione pratica per evitare ricadute negative sul clima lavorativo: la composizione del Nucleo di Valutazione interno; il ruolo preminente

del mentor rispetto agli altri docenti, quasi una figura gerarchicamente intermedia, per quanto non sistemica e delle cui competenze non si conosce il percorso formativo, né le sue concrete funzioni; la possibilità di una forma di chiamata quasi diretta di docenti (per le attività aggiuntive?) da parte del Dirigente Scolastico; la redazione di un albo nazionale pubblico dei docenti.

Decisamente da respingere, infine, il blocco degli scatti di anzianità, una misura iniqua per una categoria professionale da tempo penalizzata sotto il profilo retributivo.

Formazione in servizio

E’ positivo che nel documento, per la formazione in servizio, si faccia riferimento al protagonismo delle associazioni professionali e dei docenti stessi, in particolare per le iniziative realizzate nel contesto delle istituzioni scolastiche. Si tratta di un settore che negli ultimi tempi è stato monopolizzato dalle università,

soprattutto telematiche, con risultati non sempre qualitativamente significativi. Tuttavia, il sistema dei crediti formativi, già in uso in altre amministrazioni, si espone al sospetto di burocratismo, soprattutto se si lega la formazione al merito e alla progressione di carriera.

La formazione in servizio infatti non può essere vista unicamente come funzionale alla progressione di carriera dei singoli, ma come una necessità di tutto il sistema per poter raggiungere risultati migliori.

Investire risorse nella formazione in servizio è un’altra delle priorità imprescindibili. Noi crediamo che la priorità oggi sia la

costruzione di un sistema nazionale di formazione in servizio capace di attivare quel “processo attraverso il quale si sviluppano e si organizzano la ricerca e l’innovazione educativa”, garanzia di costante miglioramento

“La messa in ruolo di quasi 150mila precari è una scelta da apprezzare e condividere. Ma è anche un’assunzione di responsabilità verso la scuola tutta”

della dinamica tra insegnamento e apprendimento. E’ solo questo processo che connota le scuole come centri di ricerca e di sperimentazione. La formazione in servizio dunque non è un corollario complementare della professione docente, ma deve legarsi alla ricerca didattica e diventarne parte costitutiva, al pari del progettare gli interventi educativi, fare lezione, valutare gli esiti, confrontarsi collettivamente. È solo in quest’ottica che si può sviluppare la filiera progettazione- attuazione-valutazione, che dà senso a tutto il sistema. Ormai da molti anni le riflessioni sui risultati delle indagini OCSE PISA hanno messo in evidenza la necessità di un radicale cambiamento dell’insegnamento, sia dal punto di vista metodologico che

concettuale, e questo si può realizzare solo con una costante attività di ricerca e sperimentazione. Occorre affrontare finalmente i nodi importanti del sistema scolastico che emergono con forza dai dati delle rilevazioni sia nazionali che internazionali: la dispersione scolastica troppo alta; le problematiche interculturali e del disagio; l’applicazione delle nuove Indicazioni della scuola del primo e del secondo ciclo; un insegnamento per competenze che si scontra con la resistenza delle prassi didattiche tradizionali e con una valutazione anacronisticamente ancorata al voto decimale.

Negli ultimi dieci anni si è realizzato un consenso quasi universale tra gli esperti sulla imprescindibile necessità di un curricolo per competenze e del conseguente utilizzo di metodologie laboratoriali. Tutte le indicazioni ministeriali hanno fatto propria questa impostazione. Tuttavia nella scuola reale stenta ad imporsi una didattica che renda effettivo il curricolo per competenze. Noi pensiamo che una delle cause principali di questa situazione sia la mancanza di un intervento sistematico sulla formazione in servizio degli insegnanti. Dalle Indicazioni per il primo ciclo traiamo segnali positivi, che fanno pensare che almeno a livello teorico ve ne sia una nuova consapevolezza, in particolare là dove si afferma che la costruzione del curricolo per competenze non è un adempimento formale, ma è “il processo attraverso il quale si sviluppano e organizzano la ricerca e l’innovazione educativa”. All’interno di una tale visione la formazione in servizio non può che coinvolgere direttamente scuole e insegnanti, responsabili in prima persona dei processi di ricerca e sperimentazione. Ma implementare innovazioni significative è possibile soltanto con un’attività di accompagnamento proiettata su molti anni, finalizzata a coinvolgere la generalità degli insegnanti.

Per queste ragioni noi pensiamo che non vadano incentivati gli insegnanti singolarmente,sviluppando unantagonismo e una conflittualità del tutto improduttivi, ma le singole scuole, che dovranno essere capaci di incentivare e motivare i propri docenti all’interno di un progetto condiviso attraverso gli organi collegiali, rispondendo dei risultati ottenuti.

Autonomia e governo della scuola

Rilanciare l’autonomia attraverso un ripensamento dell’organico funzionale può essere una risposta valida anche di fronte al problema del precariato. Attraverso l’organico funzionale di scuola e/o di rete si può proporre un consolidamento e/o una generalizzazione del tempo pieno e del tempo prolungato quali modalità organizzative funzionali alla realizzazione del successo formativo.

Dunque si rende necessaria una flessibilità organizzativa, non secondo la logica dell’”aggiuntivo”, ma all’interno di un sistema integrato per rinforzare il curricolo. Diventa fondamentale il ripensamento della governance della scuola anche per ridefinire i ruoli e i compiti di ciascuno (dirigenza, amministrazione, docenza), eliminando le deleghe che di fatto complicano e sovraccaricano in particolare la professionalità docente.

Non basta sburocratizzare con l’ausilio della digitalizzazione, ma occorre cambiare e innovare il modello organizzativo.

Roma, novembre 2014

“Nel documento del governo è assente la funzione che la Costituzione assegna alla scuola, ossia quella di rimuovere gli ostacoli per promuovere l’istruzione di tutti e di ciascuno. Si avanzano proposte che appaiono inadeguate di fronte alle difficoltà drammatiche che segnano la realtà quotidiana.
Manca un’idea di cultura”

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