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Repubblica-Palermo-Nelle scuole il default delle imprese

Nelle scuole il default delle imprese GIORGIO CAVADI Mentre il mondo della scuola attend...

04/01/2004
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la Repubblica

Nelle scuole il default delle imprese
GIORGIO CAVADI


Mentre il mondo della scuola attende nella sua fortezza Bastiani l'arrivo dell'ennesima riforma annunciata che a spizzichi e bocconi il ministro Moratti tenta di portare a compimento, vacilla tutto l'impianto di un'idea di scuola basato sul famoso slogan delle tre "I" (Inglese, Internet e impresa), ennesima trovata mediatica del Paese del signor B.
Per amore di verità, lo studio della lingua inglese era già praticato a tutti i livelli nella scuola italiana, mentre si deve al ministro Berlinguer il primo serio e capillare intervento per dotare le scuole italiane di sistemi informatici moderni e formare la classe docente con un percorso complessivo e organico partito nel 1997, con i cosiddetti progetti 1A e 1B, che interessarono tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado. Ma la partita dell'informatica a scuola è stata spesso al centro di una colossale mistificazione: l'insegnamento del governo delle macchine e dei relativi software per molti docenti è divenuto l'alibi per allontanarsi dalle attività primaria dell'alfabetizzazione di base, molto più faticosa e complessa, assai meno ludica e ricca di appeal agli occhi degli studenti (così avviene in molte scuole di Palermo). In una parola si fa prima a insegnare ad aprire un file e una cartella che non a insegnare come costruire e comunicare un pensiero di senso compiuto da metterci dentro.
La novità dell'era berlusconiana del partito azienda e della ministra aziendalista era semmai nell'ultima delle tre "I", quella dell'impresa. La questione dell'innesto della cultura d'impresa nella scuola si deve scindere in due aspetti. Per il primo occorre analizzare a quali modelli d'impresa il sistema Italia possa guardare come esempio. Un complesso articolato e mastodontico come quello della scuola italiana - che ha il triplo degli addetti della Fiat - come può essere gestito secondo criteri di efficienza ed efficacia che, per chi non lo sapesse, è la stella polare della valutazione di ogni progetto scolastico, la definizione-madre di tutto l'aziendalismo del sistema scuola?
Certo se guardiamo alle sorti delle grandi imprese italiane, non è un bel vedere. La Fiat, che appariva moribonda, ha forse solo procrastinato la sua fine come marchio indipendente e pienamente italiano, a causa di macroscopici errori di strategie industriali, di progettazione e ideazione di modelli (orribili nella patria mondiale del design), di valutazione nell'analisi dei mercati globali (la world car, i mercati del Sud America). Abbiamo smesso di produrre personal computer dopo averli quasi del tutto inventati e nel momento di massima espansione del prodotto. Cirio è riuscita a fallire in un settore, per così dire portante - la produzione delle conserve di pomodoro - nella patria della pasta al sugo. La vicenda Parmalat è l'ultima a testimoniare del tramonto non solo dell'impresa familiare vecchio stampo, ma dell'impresa multinazionale, delle grandi holding della diversificazione, ancora una volta in un settore garantito da abitudini alimentari secolari; e gli esempi potrebbero continuare.
Escluso il settore delle telecomunicazioni, tra le poche aziende di grandi dimensioni anche finanziare che sopravvivono sono quelle del signor B., esenti da concorrenza leale e coperte da molteplici paracadute in primo luogo legislativi, come dimostrano la vicenda di Rete 4 e i fallimenti, con relativi strascichi giudiziari sugli scenari televisivi europei, cioè in mercati non protetti da padrinaggi di ogni tipo. È perciò difficile comprendere quale cultura d'impresa si vuole innestare nella scuola, a fronte dei fallimenti sopraccitati e dovuti innanzitutto alla carenza del management, a meno che le aziende che il presente governo avesse in mente nel proporre l'emulazione, fossero le piccole imprese familiari, protagoniste del miracolo del Centro-Nord e del Nord-Est e comunque elemento tipico del nostro panorama economico.
Il secondo aspetto della questione riguarda appunto le risorse umane, che nel caso dell'impresa è il management nel suo complesso. Dietro questi fallimenti, oltre al dolo, ci sono le scelte degli uomini, evidentemente inadeguate rispetto ai contesti e alle strategie da approntare. E qui si fa forte l'analogia col mondo della scuola, dove, malgrado cambi di casacca (da presidi a manager) e l'introduzione di improbabili figure di raccordo, manca del tutto una fascia di quadri, che possa gestire la complessità di scuole la cui utenza raggiunge anche cifre a tre zeri, distribuiti anche su tre o quattro plessi. La managerialità pare si sia tradotta in un sovraccarico gestionale e di controllo, spesso meramente cartaceo, di quella che è la naturale attività di una scuola, e cioè la didattica e la vita d'aula da cui discendono tutte le altre articolazioni, a fronte delle mille incombenze amministrativo-burocratiche della sicurezza (vero incubo del dirigente modello), dei rapporti con gli enti pubblici, della manutenzione ordinaria e straordinaria dei plessi scolastici.
Fallita l'introduzione di figure di sistema intermedie, che affianchino con una piena sussidiarietà (quindi anche decisionale) un preside, assistiamo all'indebolirsi della figura del dirigente, sempre più isolato e in difficoltà nel portare avanti un progetto di scuola, riconoscibile e condivisibile (e perciò democraticamente controllabile dalle componenti sociali) che risulti figlio di un'idea, di un modello pensato di formazione. Sono rari i casi in cui questo avviene, con costi personali e umani altissimi, laddove si cerca di coniugare la gestione delle sovrastrutture tecnico-amministrative, con la realizzazione di modelli di formazione profondi e originali che incidano positivamente sul territorio. E comunque tutto il sistema formativo italiano sconta una totale assenza della cultura della valutazione, e manca di un serio sistema di monitoraggio e controllo dei risultati dei processi si insegnamento/apprendimento.
Sarà meglio quindi accantonare l'approccio per slogan e iniziare a confrontarsi con questioni più legate al mondo della scuola, e proprie della cultura pedagogica e didattica, lasciando sullo sfondo la cultura gestionale e tecnocratica.
Giorgio Cavadi


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