Verità sulla valutazione, vi prego
Prove sì, prove no - di Antonio Valentino
La verità, vi prego, sulla valutazione. Può ben cominciare così questa ulteriore riflessione sul tema in discussione, giocando col titolo di una bellissima raccolta di liriche di W.H. Auden ( La verità, vi prego, sull’amore, Adelphi 2004).
Nei mondi paralleli della scuola e dell’università, soprattutto a certi livelli, il gran parlare sulla valutazione sembra ridursi, da un po’ di tempo, al dilemma test sì / test no. Si parte spesso dal Regolamento, recentemente approvato, sul Sistema nazionale di valutazione (SNV); ma i ragionamenti ruotano sostanzialmente e continuamente intorno alle prove INVALSI. I termini della discussione comunque non riescono a migliorare in chiarezza e condivisione. Qualche tentativo in questo senso si vede all’orizzonte (vedi ultimo Convegno nazionale della FLC e di Proteo di cui parla Missaglia in un suo articolo per ScuolaOggi), ma la strada mi sembra ancora abbastanza lunga e accidentata. Ormai sappiamo tutto sui limiti, sui rischi, e sulle criticità in genere delle prove cosiddette oggettive somministrate per le rilevazioni nazionali e internazionali. Si tratta infatti per moltissimi, tra quelli che si occupano di scuola, di verità acclarate. Ma, su questo terreno della valutazione, ci sono ‘verità’ non meno significative, considerate - da non pochi - più promettenti e interessanti degli aspetti critici prima richiamati. Tende a farsi strada, ad esempio, l’idea che le comunità scientifiche a livello intenazionale riescano sempre più e meglio sia a elaborare test validi / attendibili e vari (nelle forme) per le finalità che si prefiggono (rilevare la qualità degli apprendimenti e i processi e contesti in cui si sviluppa), sia ad offrire elementi solidi di conoscenza, utili ai sistemi formativi e ai decisori politici. Se così non fosse, infatti, non staremmo – si dice da più parti - a studiare e approfondire i risultati delle prove OCSE PISA, OCSE PIACC, TIMMS, ecc. Tra l’altro, va anche considerato che test e prove cosiddette oggettive non sono più ormai strumenti estranei alle valutazione degli apprendimenti disciplinari – e non solo – nelle nostre scuole. L’uso si sta diffondendo, anche se in misura ancora marginale, considerato che sono addirittura previsti per la terza prova degli Esami di Stato da circa tre lustri. Ma da noi le cose vanno un po’ sempre così. La domanda di buon senso che viene suggerita da questo gran parlare sul tema nei termini in cui se ne parla è, a mio avviso, la seguente : può il tema della valutazione dei sistemi formativi - sulla base delle rilevazioni condotte da Istituti e Agenzie ad hoc - essere sganciato da quello della valutazione come funzione della didattica nelle pratiche quotidiane di insegnamento e apprendimento? E non è proprio questa distorsione (tenere del tutto distinti e separati i due ambiti) che si rileva nel dibattito in corso? Vediamo. Prima considerazione: sulle modalità valutative ancora prevalenti Un aspetto innegabile: l'enfasi sui rischi dei test sulle prove INVALSI (spesso fondate), di fatto sta facendo passare sotto silenzio quello che è uno dei problemi più urgenti e preoccupanti del fare scuola nel nostro paese: il permanere, in maniera diffusa, di pratiche valutative “intuitive”. Modo elegante per dire: generiche, spesso inique, infondate; strumento, molto spesso, questo sì, di potere e punitivo, che spesso angoscia lo studente e che non serve neanche insegnante, ecc. Oggi nelle nostre scuole si valuta, in misura ancora prevalente, come ai tempi dei nostri genitori. Mi riferisco in modo particolare alle interrogazioni orali, gestite ancora senza criteri di trasparenza e all’interno di un rapporto inquinato dalla funzione giudicante dell’insegnante (che, in sé, non è qui, ovviamente, messa in discussione). La situazione oggi si è un po’ modificata. Nel senso che non pochi insegnanti – come già si è detto - ricorrono più frequentemente a prove oggettive o ad altre modalità sostitutive dell’interrogazione; come pure è certamente cresciuta l’attenzione alla fondatezza dei criteri e all’affidabilità delle tecniche e degli strumenti. Ma non è cambiata di molto. Seconda considerazione: sui tempi per le valutazioni e organizzazione della didattica L’interrogazione – e anche questo è un dato acclarato soprattutto nel secondo ciclo - continua ad essere elemento ancora fondamentale (assieme alla lezione generalmente frontale) del modello prevalente di organizzazione del tempo scuola. A proposito della quale sappiamo che copre una parte rilevante dell’orario scolastico - quasi la metà – (rilevazioni non recentissime, ma il dato complessivo comunque “tiene”: basta guardarsi in giro); che dilata in misura sostanzialmente improduttiva i tempi dedicati alla valutazione, a scapito di altre attività formative che, con gli insegnanti “che funzionano”, sono in genere privilegiate (lavori di gruppi su compito, problem solving individuale e collettivo, esercitazioni varie, pratiche di cooperative learning, ….); che provoca generalmente noia nella maggior parte della classe, chiamata ad assistere (ma che spesso fa altro), e apprensione nell’interrogato (in una ricerca del professor Alessandro Cavalli, gli studenti che hanno dichiarato di non annoiarsi mai sono il 16 %, qualche volta il 56 % e di annoiarsi sempre o spesso il 28 %. Per quasi uno studente su tre il tempo scolastico è il tempo della noia! E i tempi delle interrogazioni orali vi contribuiscono in misura rilevante); che dà licenzia agli studenti di dimenticare, dopo l’interrogazione, quello che si è imparato in vista dell’interrogazione stessa e talvolta di trascurare la materia fino a quella successiva; che impedisce una diversa e più efficace organizzazione dei tempi scolastici in funzione di una didattica avanzata (v. punto 2). In altri termini, a proposito di valutazione, una verità con cui è doveroso fare i conti è quella per cui tutta questa polemica sui test rischia di occultare di fatto, a prescindere dalle intenzione di singoli e di gruppi, posizioni di conservazione e tendenze regressive. Per la semplice ragione che rischiano di alimentare atteggiamenti che, circoscrivendo le considerazioni su prove oggettive e test ai loro aspetti problematici e oggettivamente rischiosi, non coglie il problema e quindi il terreno prioritario della ricerca e della proposta - e quindi della rivendicazione –; e crea avversione e rifiuto verso uno strumento e una modalità (prove “oggettive”) a cui nella maggior parte dei paesi OCSE si ricorre normalmente (ovunque è pressocchè scomparsa invece l’interrogazione). Il problema Il problema – è la considerazione che ne consegue - è sensatamente riconducibile all’assenza di una cultura valutativa diffusa e ai guai che tale mancanza produce a più livelli (soprattutto con il perdurare della pratica delle interrogazioni orali e di modalità valutative dove non sono chiari i criteri, gli strumenti e il senso). Impedendo, tra l’altro, di cogliere potenzialità e opportunità delle prove strutturate e standardizzate, per come si sono affinate e precisate nell’ultimo decennio, sia nella costruzione che nell’uso. È appunto la mancanza di una seria cultura valutativa – secondo questa ‘verità’ che sembra avere più di un fondamento - che impedisce di cogliere ciò che il buon insegnante sa bene. E cioè che le prove standardizzate sono strumenti utili e importanti per lo studente e per il suo lavoro (anche – e questo è da sottolineare con particolare insistenza - sotto l’aspetto organizzativo della didattica) e che la loro demonizzazione favorisce pratiche di conservazione e confligge con i principi di trasparenza e rendicontazione – e responsabilizzazione –. Che non sono proprio principi di serie B. Gli approdi del buon insegnante ‘Verità’ comunque da considerare sono anche quelle che tanti buoni insegnanti hanno scoperto e sperimentato nella loro attività. E cioè che le prove standardizzate non sono e non possono essere la modalità esclusiva ed unica di valutazione (a parte il fatto che i test sono ormai molteplici e vari nelle loro forme, in relazione a ciò che si vuole accertare e valutare); è fuori di ogni logica professionale voler escludere tipologie di tipo sostanzialmente qualitativo, oggi normalmente utilizzate, come le altre prove scritte, i colloqui condotti con misura e “sapienza” valutativa, le esercitazioni, i ‘prodotti’ didattici anche in termini di manufatti. Che integrano e arricchiscono il processo valutativo; che è negazione di aspetti fondamentali del profilo professionale del buon insegnante pensare di trascurare nel lavoro quotidiamo - e quindi nelle intenzionalità che gli danno senso -, l’ osservazione sistematica, la rilevazione mirata, la valutazione formativa, la spinta all’autovalutazione dello studente. Conclusioni provvisorie In attesa di verità non contestabili sul tema generale, si potrebbe allora cercare di convenire su qualche punto. Per esempio che la critica alle agenzie di rilevazione come l'INVALSI non può significare critica distruttiva nei confronto di prove oggettive e test; la critica alle prove standardizzate e ai test in genere per la valutazione degli apprendimenti non può significare negazione di funzioni (a volte si finisce col percepire questo) che sono importanti - in termini consistenti, anche se non esaustivi – per capire come funzionano le nostre scuole e il sistema in generale (e permettere alle scuole di capire come esse funzionano e di confrontarsi con le altre con caratteristiche assimilabili); tra le funzioni delle prove standardizzate, da ripensare in direzione di un più stretto legame con le finalità istituzionali, non va trascurata quella di stimolo per una cultura didattica e valutativa più efficace. Che tenda cioè a superare il nozionismo e la separatezza dei saperi e a legare saperi e competenze di cittadinanza (come quelle, ad esempio, che attengono alle correlazioni logico-formali e contenutistiche e al problem solving). E assuma la valutazione come funzione di una didattica avanzata. A quest’ultimo proposito, si tratterebbe allora di concentrarsi sugli aspetti di merito - come apprezzabilmente si tende a fare sempre di più - senza buttar via il bambino con l’acqua sporca. Per esempio, mettere in primo piano l’analisi propositiva delle storture più evidenti del Regolamento del SNV. A partire dalla valutazione dei DS dentro le procedure per la valutazione delle scuole, dalle prerogative dell’INVALSI (da ridimensionare comunque e circoscrivere) - e da come tale Istituto è costituito (presenza preponderante, da quello che si sa, di econometristi ed esperti in statistica) - e dal suo rapporto col Ministero e con le scuole. Ma ritengo anche molto più promettente puntare – dentro il SNV - su una maggiore rilevanza del ruolo dell’INDIRE. Che è l’agenzia pensata opportunamente per aiutare le scuole a sviluppare una più solida cultura valutativa e autovalutativa. Alla quale dovrebbe spettare quindi il ruolo di coordinamento complessivo del sistema. È – questa - un’idea peregrina? - See more at: https://www.scuolaoggimagazine.org/argomenti/valutazioni/verit%C3%A0-sulla-valutazione-vi-prego#sthash.cupm47dg.dpuf