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Uniutà-E ora cancellate il debito-di Walter Veltroni

E ora cancellate il debito di Walter Veltroni È una crisi globale, ha detto Kofi Annan. Credo che le parole del Segretario generale dell'Onu debbano essere prese per quello che significano l...

05/01/2005
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l'Unità

E ora cancellate il debito
di Walter Veltroni

È una crisi globale, ha detto Kofi Annan. Credo che le parole del Segretario generale dell'Onu debbano essere prese per quello che significano letteralmente: è una crisi globale nel senso che ha investito il pianeta intero. Il maremoto ha squassato otto Paesi del Sud Est asiatico e tre dell'Africa orientale ma ha cambiato, sta cambiando, cambierà il mondo nella sua globalità. Tanti e tanti segnali ci dicono che nulla, neppure qui da noi, sarà più come era stato: ci saranno un "prima" e un "dopo", come e più di quanto sia già avvenuto in questo cupo inizio di millennio per l'attentato alle Torri Gemelle, per la guerra in Iraq, per i morti di Madrid, i bambini di Beslan e le altre stragi del terrorismo, per le torture di Abu Ghraib e le decapitazioni sotto l'occhio delle telecamere. La globalizzazione del lutto non è soltanto l'effetto del coinvolgimento come vittime di tanti occidentali, uomini e donne del "nostro" mondo; né solo della magica onnipresenza delle televisioni e della suggestione dei racconti di chi torna. Neppure, direi, della immane, biblica dimensione d'una catastrofe il cui bilancio si calcola sull'ordine delle centinaia di migliaia di morti: come una guerra moderna o un'epidemia di peste medievale.

Tutto questo conta, ci inquieta, ci fa paura, nutre la nostra pietà ma non spiega interamente, credo, il senso di una comunanza che avvertiamo, da tanti segni, per tanti canali, crescere dentro la coscienza pubblica del "nostro mondo", oltre che nell'anima di ciascuno di noi. A me pare che faticosamente, in modo confuso, quasi subliminale, il maremoto del Sud Est asiatico abbia cominciato a diffondere anche in questa nostra parte del pianeta una percezione, che prima non c'era, di appartenenza a un destino comune.

La base di questa percezione è che la catastrofe, che anche "questa" catastrofe, sia il frutto degli squilibri del pianeta e della miseria in cui vive gran parte dell'umanità: l'intuizione che la povertà sia l'emergenza assoluta del mondo. E che questo sia un problema non soltanto "loro", dei diseredati della terra, ma anche "nostro". Molto più "nostro" di quanto possiamo (e il più delle volte vogliamo) credere rintanati dietro gli occhiali rosa del nostro edonismo e una cultura dominante fondata sul successo personale.

La realtà, in questo caso, l'abbiamo sotto gli occhi, le prove sono evidenti: se lo tsunami non avesse colpito coste riempite di povere case di pescatori o di impianti turistici tirati su per succhiare quel po' di benessere che arrivava con gli ospiti dai paesi ricchi, le vittime non sarebbero state così tante, se i paesi dell'area avessero potuto permettersi i sofisticati sistemi di allarme del Giappone e della California, molti sarebbero stati sgomberati e trasportati in zone sicure; se in quelle zone esistessero solide strutture civili, i soccorsi sarebbero stati più rapidi. E se decliniamo questo discorso al futuro, se guardiamo non a quello che è accaduto ma a quello che accadrà, l'ingiustizia appare ancora più spaventosa: l'Onu calcola in non meno di dieci anni il tempo necessario alla ricostruzione, ma ricostruzione di che? Delle case, degli ospedali, delle scuole, delle barche dei pescatori, delle strutture agricole, degli impianti turistici? E in questi dieci anni di che vivranno i milioni di senza tetto? Quanti moriranno per le epidemie o per malattie che in qualsiasi dei nostri ospedali occidentali verrebbero curate senza difficoltà? Per quanto tempo dureranno i fenomeni di disperazione, di degrado sociale, di sciacallaggio e criminalità di cui cominciamo ad essere testimoni, come quello orribile del traffico degli orfani? Il maremoto di Natale ha distrutto non solo il presente di quelle terre e di quelle popolazioni, ma, quel che è peggio, il loro futuro.

La realtà, dunque, l'abbiamo stavolta letteralmente sotto gli occhi, sbattuta nelle immagini che ogni telegiornale ci porta in casa. Ma quante volte li chiudiamo, gli occhi? Solo nell'anno appena concluso sono morti di Aids 2 milioni e 400mila africani: 200mila al mese. L'Aids ha abbassato la soglia della speranza di vita sotto i 40 anni in nove paesi africani. Per contrastare efficacemente il morbo servirebbero, secondo Kofi Annan, tra 8 e 10 miliardi di dollari. È un ventesimo di quanto si spende, giustamente, per la lotta al terrorismo, ma quei soldi non si trovano. In tutto il mondo muoiono 11 milioni di bambini ogni anno (quasi 30mila al giorno) a causa di malattie da noi banali come la diarrea e la bronchite e secondo l'Unicef 500 milioni di minori non hanno accesso ad alcun tipo di servizio medico, 400 milioni non hanno a disposizione acqua sicura, 270 milioni non hanno servizi igienici.

C'è uno tsunami silenzioso che ogni giorno si porta via migliaia e migliaia di vite umane da terre che il mare, magari, non lo hanno mai visto. Soprattutto bambini.
È un'illusione pensare che la tragedia di Natale possa aiutarci ad aprire gli occhi sul mondo vero a dare una scossa alle pigrizie in cui s'adagiano i nostri valori di abitanti della parte fortunata del mondo?

Non lo so. Non credo, sinceramente, che si stia verificando la presa di coscienza epocale di cui ci sarebbe bisogno, e però dei segnali cominciano a vedersi. Dai fatti che ci accadono più vicino, come la straordinaria corsa alla solidarietà di cui abbiamo testimonianza in questi giorni a Roma e in tutto il Paese, quella cui in Campidoglio abbiamo fatto da sponda coordinando la grande richiesta di adozioni a distanza e lavorando alla creazione di un registro cittadino del volontariato, un elenco di persone pronte a lavorare al quale le organizzazioni e le associazioni impegnate nella lotta alla povertà possano attingere: una specie di "banca della speranza".

Ma anche dalle grandi questioni che vanno maturando sul piano internazionale. Penso sia inevitabile che l'immane tragedia del maremoto sollevi seriamente la questione della mancanza di strumenti di partnership mondiale (si pensi a quante vite si sarebbero risparmiate se solo fosse esistito un sistema comune e condiviso di allarme); che si apra una discussione sul ruolo dell'Onu come embrione di governo mondiale, almeno nelle grandi emergenze umanitarie. Intanto si comincia a delineare un confronto su compiti e composizione di organismi come il G8 o la Banca Mondiale e si rafforza la posizione di chi spinge per affrontare il problema degli aiuti e della ricostruzione con un'ottica davvero più globale, che si ponga come riferimento i grandi temi mondiali della tutela dell'ambiente, della salute, della lotta contro la povertà. E la catastrofe naturale ed economica del Sud Est asiatico deve rimettere finalmente sui piedi la grande questione della remissione dei debiti: la sola Indonesia sul suo debito di 139.745 milioni di dollari paga di interessi 320 milioni di dollari l'anno; gli altri paesi dell'area colpita hanno debiti paragonabili: 130mila milioni di dollari l'India, 54mila milioni la Thailandia, 107mila milioni il piccolo Sri Lanka. E, sempre ogni anno, i paesi africani complessivamente pagano ai creditori 13 miliardi di dollari quando, secondo l'Unicef, basterebbero 9 miliardi in più ogni dodici mesi a salvare la vita a 21 milioni di persone. Si tratta di cifre che ci dicono, solo a leggerle, che la moratoria prospettata da alcuni governi europei servirebbe a ben poco e che sarebbe necessaria (e ancora di gran lunga non sufficiente) una effettiva cancellazione del debito, almeno per i paesi più poveri. Credo che se si facesse un referendum, la maggioranza dei cittadini dei paesi ricchi si esprimerebbe, oggi, per la remissione dei debiti ai paesi poveri. E credo che i governi, a cominciare dal nostro, dovrebbero rispettare questa volontà.


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