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Unità: senza partecipazione civile si rischia la deriva populista»

PAUL GINSBORG Lo storico inglese analizza il sistema democratico italiano e la sempre più ampia distanza tra classe politica e cittadini.

15/12/2006
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l'Unità

PAUL GINSBORG Lo storico inglese analizza il sistema democratico italiano e la sempre più ampia distanza tra classe politica e cittadini. Ci sono, è vero, isole di sperimentazione partecipativa. Ma la disinformazione e l’ignoranza rendono reale e forte il pericolo di un passo indietro. I fischi? Un segnale: la fase due inizi subito

Il sindacato confederale che viene preso di mira dagli operai di Mirafiori. I fischi a Romano Prodi a Bologna. E poi la manifestazione della Cdl contro la Finanziaria. La democrazia messa in mezzo dal rischio populista del centro destra, sono segnali che non possono passare in secondo piano. Il ministro Giuliano Amato teme addirittura l’avvento di un Pim Fortuyn italiano, che metta insieme le rabbie diffuse nel paese. E la classe politica? È consapevole di questa deriva? Lo storico inglese Paul Ginsborg, ormai da anni in Italia, nel suo ultimo libro dal titolo emblematico "La democrazia che non c’è" (Einaudi, pagg 152, euro 8) affronta questi problemi imbastendo un faccia a faccia immaginario fra John Stuart Mill e Carl Marx. «In questo libro ci accompagnano in un discorso sulla qualità dei sistemi democratici a livello nazionale e internazionale» spiega Ginsborg. Dall’analisi emerge uno spaccato dei sistemi democratici molto carenti sul piano della partecipazione. Emerge una frattura netta fra chi decide, la classe politica, e chi a volte subisce senza poter dire la sua, i cittadini. È il rapporto fra la democrazia partecipativa con quella rappresentativa, l'anello vero di congiunzione «in modo che la prima eserciti una sorta di controllo sulla fragilità della seconda, che non lasci sola» sottolinea ancora Ginsborg. «In questo libro, indirizzo la mia attenzione sul problema generale, non mi limito alla realtà italiana» precisa. Infatti la questione della mancanza di democrazia arriva fin dentro le istituzioni dell'Unione Europea. «Questo è un gravissimo problema, perché le persone non solo in Italia ma dappertutto, sono molto insoddisfatte per il divario che separa la classe politica e le istituzioni dai cittadini».
La classe politica come specchio del paese. Gustavo Zagrebelsky dice che è una banale falsità, quasi una formula auto-assolutoria.
«Sono molto d'accordo con questa lettura, ne abbiamo discusso recentemente a Firenze. Lui però parla di selezione, non di specchio, nel senso che la classe politica seleziona la parte della società a cui prestare la sua attenzione, facendo in questo modo però ignora le parti più deboli della società, e privilegia la parte più organizzata. Ecco, credo che questo sia un grosso problema».
I politici e i partiti sanno individuare i loro referenti naturali?
«Non credo proprio. Secondo me il riferimento naturale dei Ds, e in generale dei partiti del centro sinistra, in questi anni sarebbe stata quella parte, non piccola, della società, che io ho chiamato del “ceto medio riflessivo”. Questo ceto suggeriva in qualche modo di lavorare insieme per ridurre il divario fra cittadini e istituzione, non si accontentava di un atteggiamento di indifferenza e cinismo verso la classe politica, ma ha chiesto in continuazione l'apertura di una nuova fase di autoriforma dei partiti e di rinnovamento della classe politica. Siamo stati sonoramente ignorati».
Lei continua ad insistere sull'importanza della partecipazione nel gioco democratico. In Italia a che punto siamo?
«Credo che siamo ad un punto critico: o si va avanti a sperimentare le innumerevoli versioni della partecipazione, con un vero contributo nel processo decisionale, non solo nella forma consultativa, o rischiamo come negli anni ‘70 che la montagna partorisca un topolino. Prendiamo l'esempio di un piccolo comune toscano, San Piero a Sieve: qui hanno cominciato a sperimentare la partecipazione attiva dei cittadini su una parte del bilancio comunale. A me sembra di estremo significato che un milione di euro sia riservato alle decisioni esclusive dei cittadini. Ecco, vorrei vedere dieci, venti sperimentazioni di questo tipo solo in Toscana, è questa secondo me la strada maestra. Però bisogna farlo ora».
Ginsborg, lei chiede più democrazia partecipativa, ma nel frattempo in Italia si parla molto di una deriva populista della democrazia.
«Penso che sia un rischio realissimo. Devo dire che mi ha molto colpito, partecipando al programma televisivo di Santoro e visionando il filmato della manifestazione di piazza San Giovanni, l’evidente disinformazione di molti giovani di Forza Italia, ed è la disinformazione che è la base del populismo. Allora, se noi riusciamo a creare cerchi più grandi di cittadini - nel libro li ho chiamati "attivi e dissenzienti", sia di destra che di sinistra - è possibile capire meglio la complessità della sfera pubblica. Credo sia questa la difesa migliore contro il populismo. Questo fenomeno cresce proprio dove c’è ignoranza, dove c’è un capo carismatico e bastano tre slogan per partire».
Lei sta disegnando l'identikit di Silvio Berlusconi, il leader della Cdl. Crede che ci siano delle novità nel suo modo di far politica e di comunicare?
«Penso che il Berlusconi populista non sia un fenomeno recente. Anzi in questo momento vedo una limitazione di questo modello perché due o tre anni fa il controllo diretto o indiretto di tutte le televisioni era suo. Oggi è minore perché la competizioni di Sky è aumentata e ci sono le proposte di Gentiloni che modificano il quadro generale. Noi stiamo giocando non solo una partita politica, ma una profondamente culturale».
Come legge gli ultimi due eventi che hanno fatto molto discutere nell’Unione: i fischi di Mirafiori e quelli di Bologna a Prodi.
«Si tratta di un ammonimento al nostro governo, come dire: guarda che non si può solo chiedere sacrifici. Se c'è una fase due deve arrivare subito, perché gli operai devono vedere che i loro interessi, se non in breve termine, ma almeno in lungo o breve termine sono connessi fortemente con la strategia del governo. Quanto ai fischi diretti a Prodi erano fatti da un gruppo mandato da qualcuno».
Prodi parla di propaganda incivile...
«Se le parole sono troppo forti, troppo retoriche e troppo violente, allora si crea un clima incivile. Credo che la sobrietà del linguaggio politico debba esserci in tutte e due le parti».


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