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Unità-Il professore giovane e il vecchio maestro

Il professore giovane e il vecchio maestro Luigi Galella C'è un insegnante nuovo di Italiano, molto giovane. Era da molto che non ne vedevo. Proprio pochi giorni fa discutevamo dell'età me...

28/11/2005
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l'Unità

Il professore giovane e il vecchio maestro

Luigi Galella

C'è un insegnante nuovo di Italiano, molto giovane. Era da molto che non ne vedevo. Proprio pochi giorni fa discutevamo dell'età media dei professori, che va crescendo, dilatando il divario generazionale con gli alunni. Siamo sempre e solo noi. "Pensa che noia per i ragazzi", aveva osservato Barbara, di Informatica, che parla e ride, solare e gaia, e ti trasmette buonumore.
Il giovane collega ha frequentato la mia stessa università, "La Sapienza" di Roma, ma diversi anni dopo di me. Così mi è venuta la curiosità di chiedergli come buttavano le cose, ora. Con chi aveva discusso la tesi di laurea, che cosa era cambiato.
Mi capita qualche volta di andarci, da quelle parti, e mi viene voglia di salire le vecchie scale della facoltà. Passo a fianco ai nuovi studenti, sparsi qui e là fra i vialetti, e mi sento come un altro me stesso. Troppo forte e rapinosa è l'immagine di me, confuso fra loro, che vado cercandomi su una panchina, seduto mentre leggo, o parlo e mi accaloro con gli amici, le amiche di allora, in quei dialoghi fitti e intensi nei quali le vicende personali, i feeling e i corteggiamenti, si intrecciavano alle idee sulla politica, alle teorie estetiche sulla letteratura, ad autori amati o detestati. E alle letture recenti, che sentivamo entusiasticamente che ci avrebbero cambiato la vita, e agli inevitabili commenti sui professori. E su colui che più di tutti amavamo. Con la voce grave, graffiata dalla raucedine, simile a quella di Paolo Conte, che a lezione fumava sigarette francesi senza filtro, saturando l'ambiente di fumo.
Lo ascoltavamo in silenzio. Stretti nell'aula, alcuni in piedi, altri accucciati a terra, attenti, come dei cagnolini mansueti e riconoscenti. Lui sfogliava un quaderno, vergato di appunti scritti a mano, che leggeva lentamente, pacatamente. Si strofinava e lisciava i baffi, tra l'indice e il pollice, gli occhi bassi e assorti, parlava e sbuffava fumo. La voce misurata di colpo gli s'impennava, le sopracciglia s'inarcavano: eccolo il punto chiave, la questione irrisolta di cui si offriva una possibile soluzione, che ti slargava il cuore.
Ma subito dopo sembrava che lui stesso volesse replicare avanzando altri dubbi, altre questioni che quell'apparente via d'uscita apriva. Scuoteva la testa, sfogliava il quaderno, si aprivano parentesi fra i pensieri, che ti lasciavano sospeso e ammirato, a osservare, riflettere. Eravamo tutti innamorati, sedotti dalla sua intelligenza, dal suo modo d'essere, indifferente alle mode e al successo mondano. Alcuni, tra i suoi allievi, lo consideravano il più grande filosofo italiano. Tuttavia non è mai stato popolare. Non l'ho mai visto, in tutti questi anni, nemmeno una volta apparire in tv. Ma ne ho letto purtroppo il necrologio, lo scorso agosto, che i quotidiani più attenti hanno pubblicato.
Che ne è di quel tempo, di quella temperie culturale? Alle mie domande, il collega, da poco laureato, risponde imbarazzato. Anche un po' risentito di esser stato scambiato per uno studente. Lo avevo detto per gioco, ma lui deve averci creduto. Parla a voce bassa, appena un sussurro. Scopro che alcuni professori dei miei tempi sono ancora in servizio. E che il sistema dei moduli e dei crediti è criticato da tutti: moltiplica gli esami, frammenta gli sforzi, ma non alleggerisce l'ansia.
Mi risponde educatamente, ma forse non ne ha troppa voglia. Pur rendendomi conto della sua ritrosia, continuo a incalzarlo: ma che rapporto avevate con i docenti? Chi erano per voi? E prima che parli, lo precedo infervorato: no, non credo che ci sia più quell'attesa della lezione, l'emozione per l'arrivo del professore in aula, quella venerazione quasi: non è così?
Solleva le spalle, non sa che dire, mi sembra preoccupato. Ma non per le mie domande, alle quali probabilmente è abituato, e che tollera pazientemente. Ma per l'ora successiva. Deve coprire un buco in una classe che gli hanno presentato "difficile". "Come fai a tenerli, i ragazzi, in questi casi?", mi chiede sorridendo, con la voce incrinata da un sottile tremolio, mentre la campanella, invadente e stridula, suona la fine della ricreazione.luigalel@tin.it


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