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"Un obiettivo da centrare per il neo ministro: attuare l'Autonomia che c'è (nel Regolamento)".

di Simonetta Fasoli

20/03/2014
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ScuolaOggi

La scuola e le sue politiche tornano ad essere tra le priorità dichiarate e a quanto sembra realmente perseguite nell'agenda di governo: il lancio di un piano per l'edilizia scolastica, annunciato e oggetto di provvedimenti a breve-medio termine da parte dell'Esecutivo, sta a segnalare un'inversione di tendenza di cui non possiamo che compiacerci. Tuttavia, quando si ragiona in termini di interventi ”strutturali”, contestualmente alle strutture materiali in cui quotidianamente si fa scuola, si deve pensare a quegli aspetti non immediatamente visibili ma altrettanto sostanziali che attengono agli assetti istituzionali, organizzativi, gestionali. Anche sotto questo profilo è urgente un investimento di natura politico-culturale da parte dei decisori politici, accompagnato da un rilancio del dibattito tra tutti gli attori del sistema, a partire dalla stessa società in tutte le sue articolazioni, anche quelle variamente organizzate. Il punto focale di questo movimento non può che essere l'autonomia scolastica, più che mai ineludibile nella prospettiva della riforma del Titolo V°, altro nodo cruciale nell'agenda politica. E' maturo il tempo per superare definitivamente una concezione riduttiva dell'autonomia quale quella che abbiamo visto consolidarsi nell'ultimo decennio, sotto una duplice forma: da un lato, la ripresa neanche tanto strisciante di spinte neocentralistiche, che ne hanno depotenziato la carica innovativa a favore di una pura dislocazione di procedure amministrativo-burocratiche; dall'altro, il prevalere di una deregulation senza correttivi, che ha abbandonato le istituzioni scolastiche al destino di antiche e nuove disparità. Bisogna dunque ripensare l'autonomia all'interno di un sistema delle autonomie, dentro un quadro nazionale unitario. In questa prospettiva, si rende indispensabile procedere alla definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni): non è solo un atto dovuto, la collocazione di un tassello mancante nel disegno complessivo degli assetti. E' molto di più: bisogna pensare i LEP come “presidio di diritti”, per cui diventano parte del patto educativo e criterio per un'effettiva rendicontazione. Si segnala, al riguardo, l'interessante articolato del Disegno di legge 1260 (Puglisi e altri ) attualmente in discussione presso la 7^ Commissione al Senato, che disciplina il sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni : all'art. 6 troviamo definiti proprio i LEP relativi al sistema delineato. E' a tutti evidente che si tratta di una decisione di natura schiettamente politica, e proprio per questo ineludibile. Un intervento contestuale ritengo debba riguardare il governo a livello di singola istituzione scolastica, con la ripresa dell'azione legislativa in materia di revisione degli OO.CC. Si tratta di raccordare i diversi testi depositati agli atti parlamentari, rendendoli coerenti con le istanze complessive della governance, nella prospettiva delle riforme, per arrivare in tempi rapidi, operate le necessarie mediazioni, ad un esito concreto. La scuola non può permettersi di restare in una posizione fragile, e in definitiva subalterna, rispetto ai suoi interlocutori sul territorio, per mancanza di strumenti di indirizzo e di gestione adeguati alla sua funzione e alle crucialità della posta in gioco: superati gli steccati di natura ideologica, bisogna pensare a dispositivi che possano garantire la rappresentatività di tutte le componenti della scuola e del territorio, l'effettiva possibilità di partecipare al processo decisionale, nel rispetto di ruoli e prerogative, la collegialità sostanziale che valorizzi saperi e competenze dei diversi soggetti, la democrazia interna capace di coniugare efficacia dell'azione ed espressione della libertà di insegnamento sancita costituzionalmente. Finora ci si è soffermati, seppure sinteticamente, su elementi di “cornice”; ma questa disamina sarebbe monca, senza una ricognizione che riguardi anche i “contenuti”. Su questo terreno, la vera riforma sta, per così dire, scritta già nel passato; si tratta di compiere un passo che nel nostro sistema-Paese suona spesso “rivoluzionario”: dare attuazione a quel che c'è. Mi riferisco al Regolamento dell'autonomia (D.P.R. 275/99) che a suo tempo intese tradurre un disegno istituzionale in quelle che uso definire “immagini di funzionamento”. Non si tratta solo di aspetti, pur fondamentali, di natura gestionale, ma anche delle risorse normative per sostenere quell'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo che sembra essere, in definitiva, la ragion d'essere dell'intero disegno e che può portare a sistema le buone pratiche realizzate nelle scuole. Se è l'innovazione l'orizzonte di senso dell'autonomia, essa postula la ricerca e la sperimentazione come proprio volàno e guarda allo sviluppo, anche professionale, come fine e strumento. Stanno scritti nell'articolato del Regolamento quei dispositivi di organizzazione didattica, di flessibilità virtuosa che permettono di modulare i percorsi secondo criteri di individualizzazione (non di “personalizzazione”, che interviene invece differenziando all'origine gli obiettivi), di articolazione del gruppo-classe inteso come ambiente di apprendimento e non mera unità amministrativoburocratica. Perché tutto questo scenda dall'empireo delle buone intenzioni sul terreno della fattibilità sono necessarie anzitutto risorse professionali e materiali adeguate, in netta controtendenza rispetto alle politiche di tagli lineari e indiscriminati operati dagli Esecutivi precedenti (spesso nel silenzio assordante della cosiddetta società civile...). Anche questa è una riforma “strutturale” che interpella la responsabilità degli attuali decisori politici. L'individuazione dei “contenuti” intercetta necessariamente una questione fondamentale, quella del tempo-scuola. Sull'argomento molto è stato detto, volta a volta per ribadire, chiarire, fraintendere. Nell'economia di questo contributo, basterà partire da un'ovvietà troppo spesso rimossa: non c'è processo educativo, né percorso di insegnamento-apprendimento che non si misuri con la variabile del tempo, che perciò non è mai neutrale. Stiamo parlando di un tempo-scuola inteso come “tempo educativo”, e non come sommatoria di orari giustapposti e frammentati, come è accaduto nei provvedimenti dell'ultimo decennio: il tempo frutto di una proposta organica che strutturi l'esperienza dei ragazzi e delle ragazze in modo che possano costruire cultura, consapevolezza e competenze sociali. Ancora una volta, disegno complessivo, risorse e contenuti si saldano in un'unica visione, come parti di un'unica strategia. L'organico funzionale (altrimenti detto, non a caso, “organico dell'autonomia”) è la tessera che idealmente chiude questo quadro, che non pretende di essere esaustivo, ma si propone di essere paradigmatico. Componendo esigenze gestionali, dispositivi didattici, scelte progettuali, emerge con tutta evidenza che i criteri attuali di determinazione dell'organico, ancorati a parametri puramente numerici e a dati quantitativi, non solo sono obsoleti, pensati per una scuola fordista che non sta più nelle cose, ma diventano fattori moltiplicatori di iniquità e punti di rottura del sistema. Vale la pena, al riguardo, porre qualche questione. Si parla di “organico di rete”: bene, forse è il caso di sgomberare il campo da ambiguità e confusioni. L'organico di rete è funzionale ad una progettualità territoriale che ha un senso: sostiene lo scambio professionale, accompagna le singole istituzioni scolastiche verso una prospettiva meno angusta ed autoreferenziale, le aiuta a pensarsi, appunto, come parti di un sistema educativo e non come protagoniste di competizioni e lotte darwiniane all'interno di un territorio. Ma l'organico di rete, nella prospettiva in cui stiamo ragionando, non può essere l'alternativa secca all'organico funzionale di istituto, che resta invece l'opzione necessaria per il progetto di scuola: in quest'ottica, la certezza e la continuità delle risorse, professionali e materiali, vanno assicurate alla singola istituzione scolastica. Mi avvio alla conclusione, senza aver fatto cenno esplicito nemmeno una volta alla “scuola inclusiva”. Non è un'omissione, ma una scelta intenzionale. Sul principio che la scuola debba essere inclusiva (mi spingerei ad affermare che una scuola non inclusiva è una sorta di contraddizione in termini, oltre che un vulnus costituzionale) siamo tutti d'accordo, se non altro per osservanza delle retoriche politiche. Il punto dirimente è compiere le scelte strategiche, di natura culturale prima ancora che politica, per farlo valere. Partendo da alcune condizioni e priorità come quelle indicate in questo contributo.

 


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