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Tecnologia o no a scuola?

quando si parla di bambini e di adolescenti, bisognerebbe uscire dal vizio manicheo tipico dei giornalisti (e ormai anche di molti politici) di rappresentare il mondo come bianco o nero

08/02/2014
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Diceva recentemente il migliore dei nostri pedagogisti – il direttore del CPP, Daniele Novara – che quando una scuola non ha più una filosofia educativa né un obiettivo pedagogico, finisce per guardarsi solo la punta dei piedi, senza saper più trovare le risposte alle domande della contemporaneità.

Tra le varie sfide a cui le scuole, e ancora prima il MIUR, dovrebbero trovare possibili risposte, c’è il rapporto con la tecnologia.

È un male, è un bene? Computer in ogni classe, cartaceo ad ogni costo? Lim (le lavagne interattive) per ogni insegnante, o priorità alla carta igienica e a quella per fotocopie?

Io penso che, quando si parla di bambini e di adolescenti, bisognerebbe uscire dal vizio manicheo tipico dei giornalisti (e ormai anche di molti politici) di rappresentare il mondo come bianco o nero. Soprattutto in educazione – più che nella letteratura da quattro soldi – bisognerebbe difendere le diverse sfumature di grigio.

I genitori della scuola Iqbal Masih di Roma (nota alle cronache per una sacrosanta battaglia anti Moratti, prima, e anti Gelmini, poi) si sono opposti, ieri, alla creazione di una sezione tutta tecnologica, una cl@sse 2.0, che sostituisse i libri con i tablet e la lavagna d’ardesia con la Lim.

Ovviamente e giustamente, dal loro punto di vista, i genitori contrari alla classe 2.0 hanno portato, a supporto delle proprie tesi, studi – come quelli dello psichiatra tedesco Manfred Spitzer – che parlano della diminuzione della capacità di memoria, di concentrazione e di socializzazione dei minori sottoposti ad utilizzo eccessivo della tecnologia.

D’altra parte, a supporto della proposta di digitalizzazione della classe, sono sicura che la Dirigente Pasqualoni, e il MIUR, potrebbero portare altrettanti studi che dimostrino la bontà dell’utilizzo massiccio della tecnologia fin dalla più tenera infanzia.

Quindi, chi ha ragione? A conti fatti, è giusto dire che non ha ragione nessuno. Non perché, banalmente, la tecnologia sia un po’ buona e un po’ cattiva (una maestra direbbe subito: “dipende dall’uso che se ne fa”), ma perché, davanti a tutta questa discussione, mi sembra che nessuno abbia chiarito la domanda fondamentale: libri o tablet, d’accordo, ma per farne cosa?

Un tablet per sostituire gli orrendi sussidiari, tristi, inadeguati, banali? Quei sussidiari che si ostinano ad insistere sulla parola acquerugiola (mi raccomando: con cq!) uscita dall’uso comune almeno da vent’anni? Allora sono favorevole. Un tablet per evitare di dover leggere ad alta voce, a tutta la classe, facendo scricchiolare delicatamente la pagina di un libro, girarlo per mostrare a tutti l’illustrazione, usare un segnalibro costruito dai bambini per ricordarsi a quale pagina eravamo arrivati? Allora sono contraria.

Un tablet per evitare di dover mettere il naso fuori dalla scuola, vedere il mondo solo in 2D, senza piedi bagnati, senza salite e discese dall’autobus, senza fila, senza le meravigliose gote rosse dei bambini in gita? Se è così, sono fermamente contraria.

Un tablet, invece, per scoprire, dopo la gita, tutto quello che il tempo non ci ha concesso di vedere, altri luoghi simili nel mondo, e posti dove ancora ci piacerebbe andare? Se è così, allora sì, sì, tre volte sì. Un tablet per facilitare la scrittura a tutti, anche ai pasticcioni, ai disordinati, ai disgrafici? Se è così – con qualche dubbio: che male c’è ad essere un po’ pasticcioni? – allora sì. Un tablet per rendere il pensiero semplice, privo di complessità, lungo solo 140 caratteri, con un correttore automatico che impedisca di sbagliare e, quindi, di imparare? No, per favore, no.

Un tablet che faccia sentire tutti uguali, in possesso degli stessi strumenti e della stessa alfabetizzazione tecnologica e digitale di base, senza differenza classista fra chi può e chi non può permettersi un computer? Se davvero questo é l’intento, allora sì. Un tablet che faccia, nel giro di pochi anni, far risaltare le competenze degli alunni rispetto ad insegnanti non supportati da adeguati corsi di formazione, ribaltando così la relazione educativa e rinforzando la confusa percezione delle nuove generazioni di essere molto più intelligenti di chi dovrebbe educarli? Grazie, davvero no.

Potrei continuare all’infinito. Un tablet é uno strumento, e non un obiettivo. E, se è uno strumento, a quale scopo, con quali obiettivi, con quale pensiero pedagogico, con quale metodologia, stiamo pensando di introdurlo a scuola? Io non credo che, come hanno titolato i giornali, i genitori della Iqbal Masih siano “contrari alla tecnologia”. Credo invece che stiano chiedendo a gran voce di non perdere di vista l’obiettivo. Che, in una scuola pubblica, non deve essere il tablet, la Lim, la banda larga o lo smartphone. Devono essere i bambini.

Potrei sbagliarmi, ma penso che, quando lo Stato italiano, finalmente, tornerà a pensare alle scuole con la giusta attenzione e la giusta cura, quando garantirà il minimo e il massimo indispensabile – dalla carta igienica all’integrazione – e chiarirà su quali obiettivi pedagogici seleziona e forma operatori e progetti, si potrà discutere di tutto con molto più senso.
Finché i genitori avranno la sensazione che, invece della polvere sotto il tappeto, si stia iniziando a nascondere la fine del diritto allo studio dietro ai tablet, non ci saranno, purtroppo, le basi per parlare di nulla.


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