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Sospensioni stile hockey per far funzionare le classi

è una delle proposte messe sul tavolo di «Tenere la classe, la responsabilità degli adulti», convegno organizzato ai primi di dicembre a Trento

12/12/2011
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Corriere della sera

Diceva don Milani, che nel ramo vantava una certa esperienza: «Fuori dai binari no, ma dentro i binari faccio tutte le capriole che voglio». E qui la capriola c'è tutta, perché l'ispirazione arriva niente meno che dall'hockey su ghiaccio. «Avete presente come funziona l'espulsione in quello sport?» dice Marco Rossi Doria, il maestro di strada che dalle scuole dei quartieri spagnoli di Napoli è arrivato a fare il sottosegretario all'Istruzione. No, come funziona? «Non vieni cacciato dal campo per tutta la partita ma resti lì, seduto per qualche minuto a guardare gli altri che giocano. Così puoi riflettere su quello che hai combinato. E poi torni a giocare con gli altri».
L'idea è applicare lo stesso metodo per le sospensioni a scuola. Ed è una delle proposte messe sul tavolo di «Tenere la classe, la responsabilità degli adulti», convegno organizzato ai primi di dicembre a Trento proprio da Rossi Doria. In realtà è più di un'idea perché, con il nome di area gialla, è già stata sperimentata in nove scuole della provincia di Trento per i ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Come funziona lo spiega Andrea Bortolotto che lo ha visto nascere come vice preside dell'Istituto per la formazione professionale Sandro Pertini di Trento e adesso prova a farlo crescere con il progetto Campus: «Il ragazzo sospeso per motivi disciplinari non resta a casa ma viene a scuola. Solo che, per qualche giorno, viene separato dal resto della classe». Per fare cosa? «All'inizio c'è una fase che possiamo chiamare di lavori socialmente utili: cancellare una scritta sul muro, carteggiare una panchina nel cortile...». Poi c'è un secondo momento, il ragazzo torna a fare lezione ma ancora separato dai suoi compagni: «È un modo per recuperare quello che la classe ha fatto in sua assenza. Ma soprattutto il pretesto per parlare con l'insegnante del comportamento che ha portato alla sospensione, per capire il perché». Una sanzione alternativa e rieducativa che può scattare solo a patto che ci sia il consenso dei genitori. Cosa tutt'altro che scontata visto che papà e mamma, dice Rossi Doria, «sono spesso i sindacalisti dei loro figli, pronti a difenderli anche davanti all'evidenza». Perché tentare una strada del genere? «Se un ragazzo difficile non lo fai venire a scuola non serve a niente. Quello sta in vacanza, dorme, e quando torna fa ancora più casino di prima». Giusto cambiare?
D'accordo fino ad un certo punto Paola Mastrocola, professoressa di liceo e autrice di «Togliamo il disturbo» saggio fortunato e amaro sulla libertà di non studiare: «Sono d'accordo sul trasformare la sospensione da fisica in metaforica ma poi...». Ma poi? «L'insegnamento non è dovuto, uno se lo deve meritare. Non mi piace che a chi è stato sospeso, e quindi l'ha combinata grossa, concediamo pure qualche lezione privata gratis. No, io gli darei tuta e guanti. Che venga pure a scuola, i lavori da fare non mancano». Sguardo severo, e non è una sorpresa per chi conosce gli scritti della Mastrocola. «Il problema degli adolescenti è la costruzione della propria identità» ribatte Anna Maria Ajello, che insegna Psicologia dell'educazione alla Sapienza e a quel convegno ha partecipato. E allora? «Se ci concentriamo solo sull'aspetto punitivo mettiamo al ragazzo un'etichetta che non si toglierà più di dosso. Rischiamo di perdere uno studente e pure un cittadino».
Come ogni possibile novità la sospensione modello hockey fa discutere. Ma non è l'unico consiglio per tenere la classe che arriva dal convegno di Trento. Sbagliato fermarsi ogni cinque minuti per riprendere chi si distrae, a furia di ripeterlo il rimprovero non funziona più. «Se uno fa sentire i ragazzi protagonisti — dice Rossi Doria — avrà meno problemi di disciplina». E allora meglio puntare sui lavori di gruppo e sulle attività di laboratorio, ma anche realizzare progetti che diventino prodotti e alla fine possano essere mostrati all'esterno. «Può essere un video, un piccolo robot costruito con il professore di scienza, insomma qualcosa di cui andare orgogliosi», dice ancora Rossi Doria. E i social network come Facebook? Sì, ma a patto di usarli come bacheca per comunicazioni di servizio, tipo quando c'è il compito in classe o quali capitoli studiare. «L'insegnante non deve provare a fare l'amico dei ragazzi». E se lo dice un maestro di strada c'è da crederci.
Lorenzo Salvia
lsalvia@corriere.it
 


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