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Siamo nella società e nell’economia della conoscenza. Ma siamo chi?

Articolo di Francesco Sinopoli pubblicato sul n. 5/2015 di Italianieuropei.

19/10/2015
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da Italianieuropei n. 5/2015

La crisi ha portato clamorosamente alla luce tutti i ritardi che il sistema economico italiano ha accumulato negli ultimi tre decenni, a cominciare da quello gravissimo che riguarda gli investimenti in ricerca, sviluppo e istruzione, individuato già da tempo come causa della peculiare debolezza economica del nostro paese e della nostra specifica crisi. Per recuperare il terreno perduto, anche alla luce delle caratteristiche intrinseche del sistema produttivo italiano, serve un impegno straordinario dello Stato. Solo così potremo davvero entrare nella società e nell’economia della conoscenza.

Siamo nella società e nell’economia della conoscenza, in cui il sapere è il fattore principale della competitività economica, della convivenza civile e della tenuta democratica. Questa affermazione, insieme ad altre analoghe che hanno segnato un certo tipo di discorso politico ed economico in particolare a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, continuano a essere valide anche durante l’ultima grande crisi. L’importante è intendersi su “chi siamo”. L’impressione è che il “siamo” non solo non comprenda l’Italia ma ci veda molto lontani dall’insieme che circoscrive. È certamente vero che dopo una lunghissima fase di recessione l’economia inizia a dare segnali positivi: la crescita del PIL attesa per il 2015 è dello 0,7% e dell’1,3% per il 2016, mentre si stima un aumento dell’occupazione nel mese di luglio di 180.000 unità. L’indice della produzione industriale aumenta dell’1,1% rispetto al mese precedente e dello 0,7% nell’anno in corso. Si registra una lieve ripresa dei consumi. Segnali che si collocano in quella che appare come una congiuntura favorevole alle economie occidentali, nonostante la brusca frenata della borsa di Shanghai dovuta alla prevista esplosione della bolla speculativa cinese e al generale rallentamento di tutti i BRICS. Difficile dire se questa tendenza si consoliderà, tuttavia, pur se così fosse, sarebbero necessari alcuni lustri per riportare il nostro paese ai livelli occupazionali precedenti alla lunga recessione che stiamo attraversando e dalla quale fatichiamo a uscire. Il tasso di disoccupazione si conferma, infatti, elevatissimo (12,1%), raggiunge la punta massima del 43% nella fascia di età 15-34 anni, attestandosi al 7,9% nelle Regioni settentrionali, al 10,7% nel Centro, fino al 20,2% del Sud.1 Dal 2008 a oggi il prodotto interno lordo si è ridotto di ben 6 punti, mentre la produzione industriale ha subito una contrazione di quasi il 30%, portandosi su livelli precedenti al 1990.2 Crescono i divari territoriali con il Mezzogiorno, sempre più lontano dal resto del paese come dimostrano tutti i principali indicatori: dalle esportazioni al tasso di povertà, agli investimenti.3 Per l’Italia sono venuti al pettine troppi nodi e tutti insieme. Quello più rilevante, come si proverà ad argomentare, è rappresentato dal cronico ritardo degli investimenti in ricerca, sviluppo e istruzione individuato già da anni come causa della peculiare debolezza economica del nostro paese e della nostra specifica crisi, che ha radici ben più risalenti rispetto a quella internazionale iniziata nel 2008. Non siamo mai entrati nell’economia della conoscenza e anche per questa ragione viviamo una condizione di particolare difficoltà, ancora più evidente in questi anni di recessione che ha interessato l’economia di molti paesi occidentali.

LA DISEGUAGLIANZA ALLA RADICE DELLA CRISI ECONOMICA

Sostiene Wolfgang Streeck che la transizione del capitalismo dai “trenta gloriosi”, gli anni successivi alla seconda guerra mondiale (1945-75), all’attuale sistema economico si è accompagnata a una parallela transizione: quella dallo Stato “fiscale” allo Stato “debitore”.4 Come è noto, dopo la crisi energetica del 1973 il patto sociale fondato sulla gestione keynesiana della domanda e completato da un sistema di relazioni industriali “neocorporativo”, caratterizzato dall’azione di grandi sindacati tendenzialmente in grado di esercitare un forte controllo sul costo del lavoro attraverso la negoziazione collettiva, viene progressivamente abbandonato con il pretesto di essere la causa di una dinamica inflattiva fuori controllo.5 Si afferma velocemente l’idea che gli Stati non debbano avere un ruolo attivo nell’economia ma piuttosto essere “riformati” in modo tale da guadagnare stabilmente la “fiducia” degli investitori privati. La “nuova” dottrina economica ribattezzata supply side economics prevedeva, quindi, un drastico contenimento dell’intervento pubblico diretto nel mercato e un abbattimento della pressione fiscale, soprattutto sui redditi alti e medio alti, da finanziare attraverso il taglio della spesa per il welfare state e la privatizzazione di infrastrutture pubbliche.6

L’idea di fondo era che una imposizione fiscale più bassa avrebbe fatto aumentare gli investimenti privati a vantaggio della crescita della ricchezza e dell’occupazione. L’indebolimento del lavoro organizzato negli Stati Uniti e nel Regno Unito e una politica concertata di contenimento dell’inflazione attraverso i grandi patti neocorporativi hanno, nel tempo, provocato un sostanziale rallentamento della dinamica salariale con un effetto evidente sulla distribuzione della ricchezza e una crescita esponenziale della diseguaglianza che, dopo la parentesi del trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, sarebbe tornata ai livelli della belle époque.7 Quello che Crouch definisce “keynesismo privatizzato”, cioè l’incremento progressivo dell’indebitamento privato che compensa il calo delle retribuzioni ha completato la transizione di cui ci parla Streeck: lo Stato fiscale, riducendo le tasse a vantaggio dei redditi più elevati e quindi perdendo gettito rinuncia a svolgere una funzione redistributiva e diventa Stato “debitore” dipendente per il suo finanziamento dagli investitori privati, gli stessi a cui ha consentito la realizzazione di un surplus di capitale.8 Un vortice pericoloso le cui conseguenze nefaste si sono moltiplicate a partire dalla crisi dei mutui subprime esplosa quando è divenuto chiaro che il credito era stato concesso a soggetti potenzialmente insolventi, attraverso una leva finanziaria enorme resa possibile dalla progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari e in particolare dall’abolizione del Glass-Steagal Act di cui si dibatte il ripristino nella campagna per le primarie democratiche negli Stati Uniti.9

Il resto è la nostra attualità: la crisi del debito privato americano si diffonde nelle banche europee che lo avevano direttamente e indirettamente sostenuto acquistando prodotti finanziari ad alto rischio, creando un meccanismo a catena che si sovrappone alla crisi greca e poi a quella dei paesi più esposti sul versante del debito. I “creditori” degli Stati sovrani, spesso coincidenti con i popoli di altri Stati, il cui risparmio amministrato viene reinvestito nell’acquisto di titoli del debito pubblico e lautamente remunerato attraverso gli interessi, diventano direttamente protagonisti delle scelte politiche modificando in modo forse irreversibile la stessa constituency democratica. Il rischio di default di uno Stato sovrano, tecnicamente considerato impossibile fino a quel momento, si materializza a causa dei vincoli imposti dalla governance economica dell’Unione monetaria e dalla sua incompleta architettura istituzionale: priva di una banca centrale che possa svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza e senza la forza politica di finanziare investimenti pubblici, unica cura per una crisi nata dal ritiro repentino dei capitali privati dal mercato. Al contrario, a garanzia del rientro dal debito, dietro la pressione dei “creditori” il cui capitale è amministrato spesso dalle stesse banche europee (tedesche e francesi in particolare) esposte nella crisi del debito privato americano, vengono imposte ai paesi considerati più a rischio misure “draconiane” di taglio alla spesa, che fanno aggravare la crisi in atto contribuendo a una ulteriore contrazione della domanda interna, già fiaccata da lunghi anni di deflazione salariale. Austerità “espansiva” e svalutazione del lavoro hanno danneggiato l’economia reale e portato a un aumento dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in media del 30% dal 2007 al 2013.10

LA SPECIFICITÀ ITALIANA

In questa cornice, come si diceva, l’Italia si colloca in una posizione particolare. Per le sue caratteristiche intrinseche il nostro sistema produttivo, ben prima della crisi finanziaria del 2008, attraversava una fase di progressivo indebolimento. Certamente negli anni Novanta hanno pesato una crescita esterna non più “aiutata” da una divisa debole e una crescita interna deflazionata dalle politiche di contenimento della spesa pubblica e della dinamica salariale.11 Tuttavia la nostra crisi è ancora più risalente, come dimostra la variazione della produttività del lavoro rispetto ai nostri partner e competitori diretti.12 A partire dall’1% del 2000, la crescita della produttività prima si annulla e poi diventa, addirittura, negativa. Ma in realtà la dinamica inizia a rallentare già alla fine degli anni Settanta. Ciò avviene di pari passo con l’aumento del deficit commerciale nel comparto high-tech, in particolare nei confronti dei maggiori paesi dell’Unione europea, con i quali si attua più del 60% degli scambi di questi prodotti. Si è scelta la via che Augusto Graziani definiva dell’aggiornamento tecnologico e non quella dell’innovazione. Questa tendenza era infatti chiara già dagli anni Ottanta, come scrivevano Momigliano e Siniscalco a metà di quel decennio.13

In sostanza, l’investimento delle aziende italiane è andato nell’acquisto piuttosto che nella produzione di tecnologia, causando un disavanzo commerciale su un settore strategico, in quanto negli ultimi venticinque anni proprio il commercio di beni ad alta intensità tecnologica ha fatto la differenza sotto molti punti di vista.14 Ha determinato, innanzitutto, una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulle competenze tecnologiche. L’apparente incapacità di reagire a una crisi persistente da parte del nostro sistema produttivo nasce quindi da lontano e vede oggi una conferma nel debole posizionamento sui mercati che determinano la vitalità di un sistema economico, quelli dove si collocano beni ad alto valore aggiunto. Con l’introduzione del Sistema monetario europeo ancora prima dell’euro, questa condizione si è ulteriormente aggravata, venendo meno l’opportunità delle svalutazioni competitive che ha coinciso con l’aumento della competizione diretta su alcune fasce di prodotto con i paesi di più recente industrializzazione aiutati da costi inferiori della manodopera. I segni, evidenti, di un declino di lungo periodo sono stati sottovalutati insieme alle ragioni che ne erano alla base.15 La tesi che si vuole sostenere è che sarebbe stato necessario già da tempo modificare la specializzazione produttiva investendo massicciamente in ricerca e innovazione per sostenere la produttività sulle nostre gambe. Invece abbiamo assistito a una fuga progressiva dal lavoro subordinato a tempo indeterminato in chiave di riduzione dei costi e a una parallela politica “concertata” di deflazione salariale.16 Tentativo, fallito, di sostenere la produttività ignorando l’aspetto più importante, come dimostrano gli scambi dei prodotti high-tech. Infatti, guardando alle maggiori imprese italiane, oltre alla riduzione della quota di vendite nelle aree di alta tecnologia colpisce proprio il rapporto tra costo del lavoro per addetto e valore aggiunto. Abbiamo già un costo del lavoro per dipendente più basso dei nostri competitor europei, ma soprattutto un rapporto costo del lavoro/valore aggiunto più alto perché più basso è il valore aggiunto. Eppure, all’inizio degli anni Novanta la strada per affrontare la sfida imposta dall’apertura dei mercati ai paesi emergenti coniugando nuovo sviluppo e diritti di cittadinanza era stata individuata proprio nell’investimento su istruzione, scienza e tecnologia. Lo aveva teorizzato Jacques Delors nel Libro bianco che puntava a realizzare un modello di sviluppo per l’Europa fondato sugli investimenti nelle reti immateriali prima di ogni altra cosa. Lo aveva teorizzato Bruno Trentin, che oltre a dedicare gli ultimi anni della sua vita a riflettere sul nesso tra conoscenza, lavoro e libertà aveva provato a dare un contributo molto concreto in questa direzione con il Protocollo del luglio 1993, nel quale, per aumentare la produttività, si individuavano come prioritari gli investimenti in ricerca e formazione come base di una nuova politica industriale che avrebbe dovuto consentirci, dentro una politica europea dello sviluppo fondata sugli stessi assi, quel salto tecnologico indispensabile per competere sulle nuove filiere produttive.17

ANDIAMO IN DIREZIONE OPPOSTA, DA ANNI

La storia è andata in una direzione molto diversa. Mentre la nostra crisi si aggravava intrecciandosi con quella internazionale del 2008, abbiamo fatto esattamente il contrario. È ciò che risulta, chiaramente, dal documento su “L’andamento delle spese per missioni, programmi e stati di previsione del bilancio dello Stato nel periodo 2008-2014” della Ragioneria dello Stato. Mentre la spesa pubblica è complessivamente aumentata del 10,7% tra il 2011 e il 2014, quella destinata all’istruzione scolastica si è ridotta di 2,9 miliardi, pari al 6,5% del budget massimo relativo del 2010; quella per la ricerca scientifica di 1,3 miliardi rispetto al massimo relativo del 2008; quella per l’istruzione universitaria di 0,8 miliardi rispetto al massimo relativo del 2008 – 9,6%, il che porta la spesa pubblica per l’università dall’1,19 allo 0,95% del bilancio dello Stato. In questo quadro sconfortante, maggiormente penalizzata è la ricerca scientifica (–31,1%), che passa dallo 0,56 allo 0,34% dell’intera spesa pubblica. In particolare la spesa in ricerca di base scende dallo 0,14 allo 0,12% della spesa dello Stato.18 I dati forniti dalla Commissione europea sono altrettanto eloquenti e segnalano che l’investimento in istruzione si è ridotto in 8 dei 25 Stati membri esaminati a partire dal 2010. Superiore al 5% la contrazione della spesa in Grecia, Ungheria, Italia, Lituania e Portogallo, mentre in Estonia, Polonia, Spagna e Regno Unito (Scozia) si è registrato un calo dall’1 al 5%. Guardando poi alla nostra situazione, impressiona un dato su tutti: nel 2010 siamo allo stesso valore di spesa del 2000.19

Nel nostro continente si è, quindi, consolidata una geografia ben precisa degli investimenti in istruzione e ricerca che corrisponde a performance economiche con riflessi rilevanti nella dimensione sociale. Esiste infatti una importante differenza tra aree europee caratterizzate dallo stesso peso demografico in ragione proprio di ciò. L’area “teutonica”, che ha al centro la Germania ed è composta da Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Austria, Svizzera; l’area “anglo-francese” composta da Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo e Irlanda; l’area mediterranea, con Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Malta e Cipro e quella orientale che raccoglie i paesi ex comunisti (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovenia, Croazia). Al netto delle condizioni di partenza, ad esempio, in termini di reddito nell’area teutonica ci sono maggiori investimenti nell’educazione terziaria (universitaria e post-universitaria): 635 dollari per abitante rispetto ai 489 dell’area anglo-francese, ai 340 dell’area mediterranea e ai 202 dell’area orientale. Per l’istruzione universitaria si spende il doppio rispetto all’area mediterranea e il 30% in più che nell’area anglo-francese. Si investono in R&S 162 miliardi di dollari l’anno. Una cifra pari quasi al 3% del PIL, seconda sola a quella degli Stati Uniti (447 miliardi) e della Cina (232 miliardi), del 53% superiore a quella dell’area anglo-francese (106 miliardi) e del 245% superiore a quella dell’area mediterranea.20

Se allarghiamo poi lo sguardo al mondo, utilizzando come riferimento il rapporto del National Science Board – agenzia pubblica di finanziamento alla ricerca degli Stati Uniti – vediamo confermata una tendenza costante che vede la bilancia mondiale dell’output scientifico e di quello tecnologico pendere sempre più verso est.21 Infatti negli ultimi quindici anni sono cresciuti nel mondo gli investimenti in ricerca e sviluppo grazie soprattutto ai paesi asiatici. Ciò è frutto di una precisa scelta. Era evidente da tempo che le ragioni esogene dello sviluppo impetuoso dei paesi emergenti, da individuare in prima battuta negli investimenti diretti esteri allettati dal basso costo della manodopera, nel tempo non avrebbero potuto sostenere con lo stesso ritmo la crescita di quelle economie. Da qui la scelta di investire a ritmi crescenti in R&S, mentre il Giappone ha individuato anche nella mancanza di investimenti pubblici nella ricerca di base e curiosity driven una delle ragioni della sua lunga stagnazione.

PER RECUPERARE IL TERRENO PERDUTO SERVE UN IMPEGNO STRAORDINARIO DELLO STATO

L’altro aspetto che si vuole rimarcare è proprio l’importanza degli investimenti pubblici. Infatti, se il personale impegnato in ricerca delle imprese manifatturiere ci vede ultimi su sei paesi considerati nelle ricerche in materia condotte dall’OCSE,22 è evidente che la spesa pubblica diretta deve aumentare ancora più che altrove a sostegno delle infrastrutture di base ma anche della ricerca applicata, perché dobbiamo modificare la specializzazione produttiva in assenza di sufficienti investimenti privati in R&S. La spesa in questi settori da parte delle imprese, la Business Enterprise Research and Development (BERD), è sostanzialmente stagnante dalla seconda metà degli anni Ottanta.23 Ciò non può essere imputato semplicemente a un atteggiamento avaro da parte delle imprese nei confronti degli investimenti in R&S. Dipende, piuttosto, da caratteristiche intrinseche al nostro sistema produttivo, potremmo dire dalla sua morfologia: dimensione dell’impresa e specializzazione produttiva. Oltre che da precise scelte. Molte imprese, infatti, non crescono di dimensione, si precludono la possibilità di finanziarsi sui mercati di capitali e mantengono una ridotta capacità di investire in ricerca e innovazione tecnologica per la scarsa propensione dei nostri imprenditori ad aprire gli assetti proprietari e di controllo.24 Del resto, ciò fa il paio con una, parallela, ovvietà: se in un paese ancora leader per investimenti in R&S come sono gli Stati Uniti il governo continua a essere il primo sostenitore della ricerca di base per cedere il passo all’investimento privato solo nella fase di passaggio alla ricerca applicata, è evidente che per le condizioni che abbiamo descritto, in Italia è necessario che lo Stato si faccia carico di entrambe.

Per entrare nella società e nell’economia della conoscenza non serve la retorica dell’innovazione e della creatività ma investimenti pubblici, soprattutto se in gioco c’è la necessità di un cambiamento profondo della specializzazione produttiva. Questo obiettivo non può essere raggiunto dal mercato, anche dove il tessuto produttivo, per dimensioni e disponibilità di capitali, ha un ruolo importante nell’innovazione. A partire dalla Germania, dove l’unificazione si è accompagnata a un grande impegno dei Länder nel realizzare il salto di qualità che oggi tutti riconoscono all’industria teutonica come fondato proprio sull’intersezione tra scienza, tecnologia e istruzione tecnica. Lo straordinario vantaggio nel costo del lavoro per unità di prodotto conseguito dalla Germania, che per altri versi ha contribuito, colpevolmente, a deprimere la domanda aggregata nell’eurozona, si basa, infatti, non solo sulle tanto decantate “riforme” Hartz e il decentramento del processo negoziale, ma in misura significativa sulla riorganizzazione dell’intero tessuto produttivo e sul tipo di specializzazione che hanno consentito incrementi di produttività molto sostenuti.25 Lo sviluppo impetuoso degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra nasce dalla consapevolezza che Vannevar Bush, matematico e ingegnere, aveva quando scrisse forse il primo testo di politica della ricerca del Novecento per il presidente Roosevelt: “Scienza, la frontiera infinita”.26 L’assunto era il medesimo: il sistema produttivo non può ammodernarsi in maniera spontanea. Gli Stati Uniti hanno seguito in gran parte quel rapporto, al di là della sorte di alcune delle sue specifiche proposte, iniziando investimenti diretti nella ricerca e diventando committenti della ricerca. Negli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta e nella prima parte degli anni Settanta i grandi salti tecnologici sono stati compiuti grazie a cospicui investimenti statali, innanzitutto nel settore delle tecnologie sviluppate per la difesa ma non solo, come testimoniano, tra gli altri, i casi dell’aerospazio con Eisenhower o dell’industria biomedica con Nixon. Ancora oggi negli Stati Uniti la maggior parte dei fondi di ricerca è di provenienza pubblica. Le aziende tecnologiche si sono sviluppate sfruttando in prima battuta la committenza pubblica e innovazioni tecnologiche nate nei laboratori di ricerca e nelle università pubbliche e solo in un secondo momento i prodotti dei venture capital.

Il ruolo dello Stato all’origine delle principali innovazioni che caratterizzano il nostro presente è ben ricostruito anche da Mariana Mazzucato in quello che è ormai quasi un bestseller: “The Entrepreneurial State”.27 Del resto, che le scoperte scientifiche siano alla base di innovazioni tecnologiche che non rappresentavano l’obiettivo del lavoro dei ricercatori è del tutto normale. L’algoritmo di Google, il famoso PageRank, è basato sulle catene di Markov, nate per risolvere una diatriba su un argomento filosofico riguardante il libero arbitrio, così come la scoperta della magnetoresistenza gigante alla base dell’aumento della memoria di tutti i dispositivi elettronici è in realtà frutto di una avventura scientifica dall’esito imprevedibile.28 L’innovazione nasce per eccedenza di sapere. La cooperazione e l’eccedenza sono il presupposto di qualunque forma di creatività. In particolare, le ricerche sostenute dallo Stato sono quelle che si collocano nelle fasce ad alto rischio di insuccesso ma che, allo stesso tempo, determinano i principali salti tecnologici. Ciò diventa ancora più importante oggi, perché le strategie aziendali determinate da logiche finanziarie di valorizzazione del capitale a breve termine stanno compromettendo gli investimenti in R&S anche in settori dove prima erano considerati strategici dalle imprese. La progressiva diffusione dell’orientamento alla shareholder value – la teoria della creazione del valore per gli azionisti – privilegia, nelle scelte aziendali, l’interesse di questi ultimi, che sono prevalentemente banche di investimento e investitori istituzionali. Ciò produce, nel tempo, un atteggiamento breve-periodista e market oriented per cui servono imprese portafoglio più che grandi investimenti nel prodotto e ciò che a esso è finalizzato: forza lavoro piuttosto che R&S.29 Per questa ragione serve ancora più che in passato uno Stato risk taker che consenta di costruire le condizioni per la crescita dell’innovazione nei settori privati sempre più restii a investimenti di lungo termine. Alla luce di queste considerazioni crollano due miti. Primo, quello delle start up panacea della mancanza di innovazione del nostro paese. È profondamente sbagliato assecondare l’idea che l’innovazione tecnologica si possa esaurire in start up non solo senza capitali ma senza grandi aziende interessate ad acquistare successivi brevetti, soprattutto in mancanza di cospicui investimenti dello Stato nelle infrastrutture di ricerca da cui le start up dovrebbero gemmarsi. Nel Regno Unito il 60% delle start up personali fallisce in meno di un anno, l’80% in meno di tre anni, mentre negli Stati Uniti è sempre più frequente che dopo l’assorbimento da parte di una grande impresa in poco tempo si getti la “scatola”, con la maggioranza di coloro che lavorano, e si tenga solo l’innovazione.30 Allo stesso modo crolla il mito dell’utilità degli incentivi alle imprese per investimenti in R&S, che da soli non producono effetti. Non è un caso, infatti, che la percentuale della spesa per R&S delle imprese sostenuta dal governo italiano è costantemente superiore a quella degli altri paesi della UE a 15 con esiti evidentemente deludenti.

Piuttosto, gli investimenti pubblici diretti nelle scuole, nelle università e negli enti di ricerca costruiscono un contesto favorevole a un certo tipo di investimenti privati, che necessitano di un sistema di infrastrutture di ricerca per sviluppare le fasi del prodotto ad alta intensità di conoscenza così come di scuole pubbliche e centri professionali in grado di formare il personale a diversi livelli. Ma soprattutto il cambiamento della nostra specializzazione produttiva richiede una committenza pubblica per l’innovazione e “capitali pazienti”, cioè l’opposto dei capitali breve-periodisti di molti fondi di investimento certamente utili, invece, nella fase dello sviluppo delle innovazioni. Naturalmente una politica di investimenti di questa portata richiederebbe una nuova governance economica dell’Unione europea. Si è costruito, infatti, un processo di integrazione economica fondato su meccanismi di convergenza insensati per una parte rilevante dei paesi interessati e non si è in alcun modo lavorato per creare una struttura dell’offerta industriale.31 Tuttavia dei passi nella giusta direzione sarebbero possibili già da ora nel nostro paese, basta decidere le priorità. Alla fine degli anni Ottanta l’obiettivo della politica dell’alta formazione era aumentare il numero dei laboratori della seconda rete di ricerca e delle università per innervare il territorio e condizionare in positivo la domanda di saperi e tecnologie espressa dalla società nel suo complesso.32 Il progetto era ben esemplificato dall’attenzione posta agli investimenti per le università e la rete di ricerca nel Mezzogiorno, all’interno dell’intervento straordinario. Quell’approccio, abbandonato quasi subito per ragioni che esulano da questo contributo e intrecciano la storia politica del nostro paese, è ancora valido.

Per concludere, nell’enciclica “Laudato Si’”, il pontefice, tra le tante condivisibili riflessioni, sottolinea la necessità di una economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale orientate sui bisogni sociali reali e sulla salvaguardia dell’ambiente. Un modello di produzione e di consumo che promuova il riutilizzo e non gli scarti, siano essi oggetti o, peggio, persone ridotte a oggetti. Per tutto questo serve la ricerca necessaria “a risolvere i problemi urgenti dell’umanità” mentre “rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società”.33 Un chiaro invito a uscire dalla retorica della società della conoscenza per entrarci davvero con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita attraverso una nuova sostenibilità dello sviluppo.

[1] Si vedano FMI, World Economic Outlook, 9 luglio 2015, disponibile su www.imf.org; Istat, Occupati e disoccupati, luglio 2015, disponibile su www.istat.it

[2] G. Surdi, Una via italiana per l’Industrial compact, in “Italianieuropei”, 5/2014.

[3] Si veda soprattutto Svimez, Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2015.

[4] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.

[5] C. Crouch, Relazioni industriali nella storia politica europea, Ediesse, Roma 1996; si veda anche C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, Roma-Bari 2012.

[6] C. Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società?, Laterza, Roma-Bari 2014.

[7] Si vedano D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011, T. Piketty Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014 oltre alle opere di Colin Crouch già ricordate.

[8] W. Streeck, op. cit.

[9] R Reich, Hillary Clinton’s Glass Steagal, disponibile su www.robertreich.org.

[10] S. Fassina, Lavoro e libertà nella grande trasformazione, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.

[11] S. Ferrari, Società ed economia della conoscenza, Mnamon, Roma 2014; P. Bianchi, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, il Mulino, Bologna 2013.

[12] Utilizziamo il riferimento alla produttività perché confrontata con la dinamica delle esportazioni nei mercati high-tech permette facilmente di far emergere quello che appare come il problema principale da affrontare e cioè il valore aggiunto dei beni che produciamo. Rispetto al significato del termine e, in particolare, alla fungibilità che sottende tra il bene lavoro e il capitale si rinvia alle considerazioni contenute in C. Pozzi, G. Surdi, Produttività, in “Italianieuropei”, 1/2014.

[13] S. Ferrari, P. Guerrieri, F. Malerba, S. Mariotti, D. Palma, L’Italia nella competizione tecnologica internazionale. Quarto Rapporto, FrancoAngeli, Milano 2004; L’Italia nella competizione tecnologica internazionale. Quinto Rapporto, a cura degli stessi autori, FrancoAngeli, Milano 2007; A. Graziani, Intervento al convegno di Azimut sulla politica economica e l’occupazione, Milano, 25 e 26 ottobre 1985, disponibile su www.syloslabini.info

[14] S. Lucarelli, D. Palma, R. Romano, Quando gli investimenti diventano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale, in “Moneta e credito”, 1/2013.

[15] S. Ferrari, Le ragioni del declino, in P. Greco, S. Termini (a cura di), L’Italia oltre il declino. Ricerca scientifica e competitività economica, Muzzio, Padova 2007. Nello stesso senso I. Visco, Investire in conoscenza, crescita economica e competenze per il XXI secolo, il Mulino, Bologna 2014.

[16] F. Sinopoli, Rileggendo Bruno Trentin nella nuova grande trasformazione, in “Economia e società regionale”, 3/2014; F. Sinopoli, Appunti su contratto unico e articolo 18 aspettando il Jobs Act, disponibile su www.syloslabini.info

[17] B. Trentin, Lavoro e conoscenza, Lectio doctoralis presso l’Università Ca’ Foscari, oggi in B. Trentin, La libertà viene prima, Editori Riuniti, Roma 2004.

[18] P. Greco, Ricerca e formazione: in sette anni i tagli più profondi, 8 gennaio 2014, disponibile su www.roars.it. Queste considerazioni non devono farci comunque dimenticare che in realtà la spesa pubblica italiana nel suo complesso, in particolare quella di scopo, è largamente inferiore alla media europea. All’origine del nostro debito pubblico sta non tanto un eccesso di spesa quanto un difetto di entrate pubbliche determinato da un basso livello medio dei redditi unito al macroscopico fenomeno dell’evasione. Su questo si veda S. Perri, R. Realfonzo, Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta, in “Economica e Politica”, disponibile su www.economiaepolitica.it/primo-piano/taglialla- spesa-pubblica-una-vecchia-ricetta

[19] Commissione europea, Education Budgets Under Pressure in Member States, disponibile su www.ec.europa.eu/education/news/2013/20130321_en.htm

[20] P. Greco, L’Europa a 4 velocità, in “Scienza in rete”, ottobre 2014, disponibile su www.scienzainrete.it

[21] National Science Board, Science and Engineering Indicators 2014, disponibile su www.nsf.gov/statistics/seind14/index.cfm/chapter-4/c4h.htm#s2

[22] OCSE, Main Science and Technology Indicators. OECD Science, Technology and R&D Statistics 2014, disponibile su www.oecd.org.

[23] S. Lucarelli, D. Palma, R. Romano, op. cit.

[24] F. Barca, Italia frenata: paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, Roma 2006.

[25] L. Tronti Perché la Germania è diventata super, in “Eguaglianza e libertà”, 30 aprile 2014, disponibile su www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=1731.

[26] V. Bush Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

[27] M. Mazzucato, The Entrepreneurial State. Debunking Public vs Private Sector Myths, Anthem Press, Londra 2013.

[28] F. Sylos Labini, Scienza e crisi, Laterza, Roma-Bari, in corso di pubblicazione.

[29] M. Mazzucato, op. cit. Si veda anche l’analisi dettagliatissima, colta e chiara in A. Salento, G. Masino, La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Carocci, Roma 2013.

[30] C. Formenti, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaca Book, Milano 2013.

[31] C. Pozzi, Crisi, teorie, politiche: il coraggio di cambiare, in “L’industria”, 2/2014.

[32] A. Ruberti, Introduzione, in AA.VV., La scienza in Italia negli ultimi quaranta anni, FrancoAngeli, Milano 1991.

[33] Santa Sede, Lettera Enciclica Laudato Si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, disponibile su w2.vatican.va.


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