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Sfera non basta

Alessandro D'Avenia

17/12/2018
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Corriere della sera

Ma davvero ti piace Wagner? — Certo! Anche se ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia!» così risponde Woody Allen a Diane Keaton, in Misterioso omicidio a Manhattan, con una battuta definitiva su chi strumentalizza la musica. Non credo sarebbe piaciuta a Platone che nella Repubblica scrive: «Non si introducono mai cambiamenti nei modi della musica, senza che se ne introducano nelle più importanti leggi dello Stato». Per il filosofo la musica era questione politica a tutti gli effetti e per questo censurava alcuni generi, i cui ritmi, parole e danze corrompevano gli animi, soprattutto dei giovani. È sempre andata così nella storia: le novità musicali sono ritenute pericolose da chi teme cambiamenti destabilizzanti. Goethe, mentore di Mendelssohn, vietava al talentuoso pupillo di ascoltare la musica di Beethoven, eccessivamente passionale. Alcuni si tappavano le orecchie in presenza dei cromatismi musicali di Wagner, che forzavano i naturali rapporti armonici della scala diatonica con semitoni che scuotevano oscuramente l’animo. I Beatles scandalizzavano perché avevano tradotto in suoni l’energia dei desideri dei giovani: quest’anno ricorrono i 50 anni del White Album, con le sonorità rivoluzionarie di Helter Skelter o Revolution. I geni vivono e vedono, per primi, parti di mondo e di anima ancora in-visibili e in-vivibili: la loro arte rende abitabile la condizione umana in tutta la sua estensione, dal sottosuolo al cielo.I musicisti che seguono i grandi creatori si inseriscono nei loro filoni aurei fino a esaurirne le possibilità creative, poi qualcuno scova e inaugura una vena nuova. Il nostro è un tempo che musicalmente sta esaurendo filoni di decenni fa, portandoli alle estreme e opposte conseguenze: è il caso anche della musica trap («trap house» è un luogo abbandonato dove si spaccia droga) che mescola rabbia e beat del rap con voci contraffatte e ipnotiche, melodie aggressive e trasgressive, parole astutamente e politicamente scorrette.

Se ai giovani è sufficiente ciò che questo trapper canta è perché non abbiamo da mostrare loro un orizzonte di felicità alternativo

Sfera Ebbasta, 24enne re della trap in Italia, smette di andare a scuola a 15 anni, riempie i muri di graffiti col suo nome, fa il porta-pizze e poi l’elettricista. Nel frattempo compone. Ha imparato dal padre, musicista hippie, morto quando lui aveva 13 anni. Una vita in periferia tra canne e noia, cercando di arrangiarsi con l’amatissima madre, e la convinzione di voler fare rap, l’unica cosa che lo risveglia dal torpore di una vita che gli sta stretta. Per i morti di Corinaldo si è tatuato sei stelle sulla testa, dove già aveva il simbolo del dollaro e dell’euro. E adesso che è milionario dice di avere ciò che desiderava: lavoro, soldi e successo. Alcuni adolescenti, che cercano nella musica il modo di segnare il distacco generazionale e il rinforzo per un’identità in formazione, in Sfera trovano i desideri nudi e crudi: potere e piacere. In assenza di orizzonti superiori alla vita materiale l’inno «trappista» (generalizzo, perché la trap ha voci molto diversificate) è meno scandaloso di quanto si creda: se in questo mondo nulla ha senso, non resta che sopravvivere al caos, godendo e dominando. Conosco ragazzi che, pur non vivendo secondo il credo «sferico», lo ascoltano per dire sfacciatamente la verità a un mondo adulto che si riempie la bocca di valori, ma poi non li pratica o fa il contrario; ne conosco altri che invece ne fanno un manifesto per il loro stile di vita, perché vi trovano un orizzonte di felicità; ne conosco altri ancora a cui quella musica fa semplicemente schifo. Allo stesso modo conosco adulti che ascoltano musica classica e cercano le stesse cose che Sfera inneggia. Anche Alex, il 15enne protagonista di Arancia Meccanica, si esalta alla violenza ascoltando Beethoven, che senz’altro non è la causa delle azioni del giovane, da ricercare piuttosto nell’educazione e cultura ricevute, e nelle sue scelte.

Anche geni

come Wagner

o i Beatles destavano scandalo

Sfera è il mandante della tragedia di Corinaldo tanto quanto Wagner lo è dell’invasione della Polonia. Se non ci affrettiamo a dividere il mondo in buoni e cattivi, perdendo la complessità del reale, magari scopriamo proprio nella musica di Sfera una chiave di lettura dell’oggi. I biglietti da vendere oltre il limite consentito, l’azione pianificata di ladri e/o spacciatori, le consumazioni di alcol da parte di minorenni fino a tarda notte, appartengono a quel «consumismo delle vite» che Sfera canta senza mezzi termini. Prima di scagliarci contro la sua musica, dovremmo chiederci perché i ragazzi la amano? Che cosa ci stanno dicendo? Guardo sempre alla cultura giovanile come uno specchio retto verso la generazione precedente, smascherata con chirurgica precisione dagli adolescenti. La trap di Sfera è coerente con l’odierno consumismo esistenziale, frutto di un’assenza di senso che spinge al ripiegamento su se stessi: cose e persone servono al piacere e al potere. Non esistono orizzonti più ampi dell’istante e del benessere individuale: una vita priva di storia e legami, frammentata, le cui ferite emergono meno sfacciatamente anche altrove.

Dobbiamo domandarci perché i ragazzi amano le sue canzoni

Rimanendo in casa, basta ascoltare «Cherofobia», presentata quest’anno a X-factor dalla 16enne Martina Attili. «Ansia» è la parola più ricorrente in un testo in cui essere felici diventa una fobia: «non riesco a vivere senza qualcosa che mi opprime/che mi indichi la fine/perché ho un cervello strafatto di spine». Alcuni adolescenti temono la felicità proposta dagli adulti come una malattia, ne avvertono l’inganno, svelato da «La verità» di Brunori che lamenta l’incapacità di aspirare a qualcosa che stia sopra la pancia, perché «la verità/è che non vuoi cambiare/che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose/a cui non credi neanche più». E allora ci si lancia nel (disin-)canto dei Thegiornalisti, in un’atmosfera da sera del dì di festa, in cui però la festa, tanto attesa, non c’è stata o è durata un istante, perché «è puttana/questa felicità/che dura un minuto/ma che botta ci dà»; o si può indossare la maschera sprezzante dei Maneskin per celare il timore di non esistere: «quindi Marlena torna a casa, che ho paura di sparire»; o cantare «Io non abito al mare» di Francesca Michielin che, con parole apparentemente acqua e sapone, tira fuori le spine della solitudine delle relazioni, ripetendo: «voglio vedere se mi stai ascoltando». Se proviamo ad ascoltare ciò che i ragazzi ascoltano, possiamo cogliere cosa desiderano o non hanno la forza di desiderare: dove il desiderio s’annulla, s’ingolfa, si nasconde, s’esalta...

I miei genitori non mi hanno mai obbligato ad ascoltare la loro musica, ma da adolescente la ascoltavo volentieri, anche se poi li prendevo in giro. Ascoltavo quella dei miei fratelli per sentirmi più grande, quella dei coetanei per riconoscermi nel gruppo e infine quella in cui io mi rispecchiavo: come «I still haven’t found what I’m looking for» degli U2, che intercettava il «burning desire» di felicità in cerca di approdo, o come la domanda dolorosa e vera di «Who wants to live forever» dei Queen: «What is this thing that builds our dreams yet slips away from us?» (Che cosa è che costruisce i nostri sogni ma poi ci sfugge?). Sono solo frammentari esempi di una musica che veniva incontro alla mia ricerca, rilanciava il desiderio senza risolverlo, teneva viva e aperta la ferita e mi aiutava a raccontarla, prestando le parole a un io ancora balbettante. Oggi alcuni adolescenti cercano queste parole nei testi di Sfera o altri trapper, ed è lì che dobbiamo ascoltare il loro desiderio. Soldi, piacere, successo, potere, sono per loro la risposta al desiderio umano di infinito: “Rockstar,/due tipe nel letto e le altre due di là/gli amici selvaggi, tutti dentro il privée/fanculo il Moët, prendiamo tutto il bar”. Se alcuni adolescenti cercano qui la vita è ora per provocare, ora per smascherarci, ora perché questo è l’orizzonte di desiderio che gli abbiamo indicato. Non serve censurare «a valle» la musica, bisogna risalire alle fonti che dissetano la sete del nostro cuore, per scoprire dove cerchiamo il senso da dare alla vita nostra e loro. Sfera non basta, ma se i ragazzi se lo fanno bastare è anche perché non abbiamo da mostrare un orizzonte di felicità alternativo e attraente.

Il letto da rifare oggi allora può essere dedicare una sera a settimana all’ascolto musicale reciproco: una canzone la sceglie papà, una mamma, una a testa i figli, una anche la nonna/o. Ciascuno la racconta e spiega, gli altri ascoltano senza giudicare, ma ponendo domande, così conoscerà le parole del desiderio dell’altro, e magari qualche sua ferita, debolezza, ricordo, sogno, tenebra. Continuate il giro finché vi va: immaginate che jam-session a alta tensione con Simon&Garfunkel accanto a Eminem, Battisti a Salmo, Chopin a Sfera... Fatene una playlist familiare e ascoltatela. Io lo faccio con ogni nuova classe: chiedo a ciascuno la canzone preferita, compilo la playlist (titolata maccheronicamente in base alla classe: «First A Greatest Hits») che ascolto con attenzione per sondare il cuore di chi ho di fronte: un «appello» musicale. Così la musica diventa gioia, scoperta, scontro-incontro generazionale, relazione: cioè vita. Magari a casa e scuola ce ne fosse di più...


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