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Scuola, università e ricerca: una strada complicata

Per diventare insegnanti occorrono 5 anni di università più uno o due di abilitazione. Non c'è una politica seria di copertura dei posti. Graduatorie affollate, tagli e leggi contradditorie creano una corsa ad ostacoli

08/02/2012
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Rassegna.it

di Claudio Franchi e Anna M. Villari

Scuola, università e ricerca: una strada complicata (foto di Daniele Frediani, da Flickr) (immagini di Daniele Frediani)
Come un fiume carsico la discussione sul valore legale del titolo di studio ogni tanto riemerge alla ribalta dell’interesse politico per poi inabissarsi con un nulla di fatto e così via. Sarà così anche con il governo Monti? Non lo sappiamo. Intanto la questione sta appassionando molto, il governo ha promesso decisioni meditate e condivise, ma il florilegio delle posizioni sull’argomento non promette bene. Paradossale è che la molla per riparlare di valore legale sia stata un’esigenza di semplificazione, mentre le proposte che stanno emergendo hanno l’aspetto di mostruose complicazioni. Tutto questo, comunque vada a finire, avrà delle conseguenze soprattutto, se non solo, sul sistema di reclutamento negli impieghi pubblici, cioè sui criteri di selezione per partecipare ai concorsi pubblici.

Prima di entrare nel merito delle fantasiose proposte semplificative può essere utile una rapida ricognizione sulla situazione attuale per come si è evoluta in questi anni di “riforme creative”, fermo restando che negli impieghi pubblici ancora oggi si entra, per la quasi totalità dei profili, per concorso e per forme simili di selezione.

Nei settori dell’istruzione, della scuola e dell’università si sono sedimentate nel corso degli anni complicazioni derivanti da vari problemi, non ultimo il fatto che i concorsi non vengono banditi regolarmente e questo alimenta un precariato “stabile” (che va a coprire posti vacanti e non assenze temporanee) di persone che possiedono i titoli richiesti e un’esperienza lavorativa consolidata. L’assenza di una politica costante e programmata di copertura dei posti (turnover, adattamento piante organiche a esigenze formative in continuo cambiamento), combinata con i tagli degli ultimi anni (in particolare gli ultimi quattro) e con interventi legislativi spesso contraddittori sul già complicato sistema delle graduatorie, ha reso il reclutamento in questi settori una specie di corsa a ostacoli che non favorisce, soprattutto nella scuola, l’ingresso di forze fresche.

L’ultimo concorso per docenti di scuola risale a oltre dodici anni fa. Non tutti i vincitori di quel concorso hanno avuto una cattedra. E non solo a causa dei tagli agli organici. Da allora si è molto discusso sul reclutamento dei docenti e sui percorsi possibili per arrivare all’abilitazione all’insegnamento attraverso dei corsi post laurea che comprendessero anche un tirocinio. Ci sono state le Ssis (Scuole di specializzazione per istruzione superiore), poi i Tfa (Tirocini formativi abilitanti) e tra le une e gli altri il dramma di migliaia di aspiranti insegnanti in dubbio se i loro corsi formativi (pagati profumatamente) avessero ancora valore...

Per farla breve oggi per diventare insegnanti, di scuola dell’infanzia come di liceo, occorrono cinque anni di università (3+2) più uno o due anni di abilitazione. Un percorso lunghissimo per entrare in graduatorie già affollate da chi è in attesa. Tralasciamo di spiegare i meccanismi delle graduatorie perché sarebbe più facile risolvere un sudoku.

Per fare ordine nella materia la Flc Cgil propone di lavorare su tre pilastri: stabilire criteri precisi su cui formare l’organico ottimale di scuola, mettendo a disposizione di ogni istituto una quota flessibile di personale da utilizzare per far fronte a situazioni non prevedibili e mutevoli, dal recupero della dispersione scolastica a progetti di inserimento di alunni stranieri ecc.; coprire i posti liberi con un piano pluriennale in base anche ai prevedibili pensionamenti (la scuola italiana ha il personale più vecchio del mondo) e gestire le graduatorie attuali in modo che non costituiscano una sorta di muro invalicabile per i più giovani; e, soprattutto, bandire i concorsi a scadenze regolari. Anche per le altre figure professionali che lavorano nella scuola l’attuale reclutamento è per concorso per titoli ed esami o per soli titoli a seconda della qualifica. In realtà più di tutto valgono l’aggiornamento e la formazione in servizio continui e costanti.

Nell’università il reclutamento del personale tecnico e amministrativo avviene con concorso per titoli e, in alcuni casi, attraverso il collocamento, quello dei docenti e dei ricercatori è da anni in perpetua trasformazione, con il risultato di un sostanziale blocco. L’assenza, considerata un privilegio, di un contratto collettivo nazionale di lavoro dei docenti è di fatto un ostacolo alla ridefinizione partecipata del sistema intero. Dopo anni passati alla ricerca del fantomatico concorso perfetto tutte le mitologie ideologiche della meritocrazia si sono finalmente incarnate nella legge Gelmini (240/2010), riorganizzandosi, maldestramente, in un’abilitazione nazionale a scadenza quadriennale, della quale però manca ancora l’effettiva applicazione. In compenso il nuovo ordinamento delle figure pre-ruolo – dalle modifiche introdotte sugli assegni di ricerca alla cancellazione del ricercatore universitario come primo livello d’accesso, sostituito addirittura da due figure a tempo determinato – ha ulteriormente frammentato e indebolito un sistema già fragile dove è a tutt’oggi impossibile mettere a valore le risorse umane, in termini sia di capacità che di competenze.

Negli enti pubblici di ricerca esistono essenzialmente tre modi per divenire ricercatori a tempo indeterminato. Il primo è la vincita di un concorso indetto per uno specifico settore disciplinare. Se non si risulta vincitori ma si ottiene il punteggio minimo (stabilito nei singoli bandi) necessario per ottenere l’idoneità al ruolo, si entra in una graduatoria che consente di essere chiamati da un istituto che abbia la possibilità di attivare un posto per il medesimo profilo.

Infine, il Ccnl consente agli enti un’assunzione diretta di ricercatori che vantino almeno tre anni di servizio con rapporto subordinato, a condizione che abbiano sostenuto un concorso pubblico di tipo analogo a quello necessario per il posto. In questo momento negli enti di ricerca borse di studio, co.co.co e assegni di ricerca sono utilizzati in sostituzione dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato o a tempo indeterminato, impedendo la crescita professionale, una giusta retribuzione e le adeguate tutele.

Particolarmente ingarbugliata è la situazione delle accademie di belle arti e dei conservatori, dove una riforma ordinamentale del 1999 che le equipara alle università non è mai entrata pienamente in vigore e certamente non per problemi economici, ma per l’assenza di una reale volontà politica di attuazione. Gli organici effettivi sono congelati a quella data, manca un sistema ufficiale di reclutamento a tempo indeterminato e il reclutamento di nuovi docenti è avvenuto utilizzando le forme più disparate: co.co.pro, co.co.co, partite Iva. Una vera giungla da cui si esce dando gambe (nuove) alla vecchia riforma.

Le proposte in discussione sull’abolizione del valore legale del titolo di studio come panacea per far entrare nell’impiego pubblico i migliori sono, a dir poco, surreali, quando non colpevolmente disastrose e sicuramente surrettizie. L’architrave della discussione è il giudizio principe e ineluttabile del “mercato”, il moloch neoliberista, che deve essere lasciato libero di giudicare autonomamente il valore delle competenze e della sua certificazione. Se si guardasse alla questione solo dal punto di vista degli atenei, la si potrebbe ridurre a una differenziazione delle lauree sulla base dell’assunto che ci sono università migliori di altre, dunque anche i titoli devono essere diversi. La graduatoria delle università dovrebbe o potrebbe essere stilata dall’Anvur, la nuova agenzia nazionale di valutazione, che però non è realmente operativa e non lo sarà ancora per lungo tempo.

Sicuramente le università non sono tutte uguali, ma lo sforzo dovrebbe essere quello di migliorare quelle strutture che, dopo un’attenta analisi, non sono ritenute all’altezza del compito e non di certificarne l’inadeguatezza. Ma forse, dopo il primo passo tentato nel Consiglio dei ministri di eliminare la valutazione del voto di laurea nei concorsi pubblici in un’inopinata corsa al ribasso sia della qualità del sistema che delle motivazioni degli studenti passati e futuri, la partita potrebbe riaprirsi per concedere finalmente il tanto difeso valore legale. Al sindacato spetta il compito di preservare l’emanazione del titolo da parte dello Stato – attribuendogli quindi il valore legale –, impedendo che l’istituzionalizzazione della certificazione delle competenze (il vero scopo dell’operazione) possa indifferentemente spettare a soggetti pubblici (gli agenti del sistema della conoscenza così come è adesso) e privati. Chi saranno questi privati? Speriamo che l’ardua sentenza non verrà mai scritta e che nessun albergo possa mai assegnare a un suo giovane cameriere il diploma di scuola superiore. Scalando la “formazione” dal suo stipendio...
 

 


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