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Rivalutiamo i secchioni, ma dopo facciamoli lavorare

Da bamboccioni a precari il passo è breve. Gli alibi del conflitto padri-figli allontana dal senso di responsabilità. Anche se il sacrificio è annichilito dal resto che non funziona

25/01/2012
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l'Unità

Fabio Luppino

Mi sono laureato a 24 Anni appena compiuti e ancora mi brucia. Ho perso nove mesi per rifare un capitolo della tesi solo per non contraddire il relatore. Il viceministro ha utilizzato un termine slang, ma tanto per farsi capire. La provocazione è giusta in un Paese eternamente fermo, in cui si contrappongono i padri ai figli fornendo alibi a questi ultimi, che amabilmente passano dal ruolo di bamboccioni a quello di precari sempre giustificati, con le dovute eccezioni s’intende. Tralasciamo anche la storia personale di chi l’ha lanciata la provocazione, altrimenti finiamola qui: se non può fare il viceministro qualcuno lo dica forte ora o taccia per sempre. I figli di stanno dappertutto, a destra come a sinistra, con le raccomandazioni lievi e quelle forti, quando basta il cognome o anche solo il nome... Dire sfigati, dunque, è dire mollaccioni eternamente figli, per sempre irresponsabili, anche dopo i 28 anni. In parte è così, in parte non lo è. Io sono uno sfigato, per censo, nel novero di quelli che ai tempi stavano in una famiglia che non poteva permetterselo un figlio all’università. O, meglio. Di quelle in cui i risparmi, i pochi risparmi stavano là per quello,ma nonc’era tempo per i sofismi culturali, del lo devi maturare tu, dell’approfondisci, ma fai anche le tue esperienze che hai tempo, del sì studia ma ti devi divertire, quando ritorna la bella età... Studiare per laurearsi, come riscatto sociale, come passaggio da un mondo ad un altro e forse venticinque anni fa aveva un senso dirlo. Studiare con senso di responsabilità, perché è quella l’occasione che non torna più nella vita, per non avere rimpianti dopo, per non dirsi se l’avessi fatto meglio. Anche per mettersi alla prova, perché è giusto imparare a non rimandare, che poi è per sempre. La facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza aveva ai tempi aule di mille posti e passa. Il primo anno bisognava stare seduti in terra, avvolti dal fumo e il professore lo sentivi comunque se lo volevi sentire:da Monticone, Martino, Marzano, Scoppola, Amato, De Felice presidente di commissione di laurea. Non era ancora partita la corsa verso le università private. Erano i tempi in cui si dava per scontato il sapere e tu eri conscio che non potevi dare per scontato nulla e te ne dovevi appropriare. In corso, alla fine, eravamo cinquanta sì e no, e ci conoscevamo tutti, sfigati e figli dì. Studiare quando si deve significa anche lottare per qualcosa che abbia senso. E lottare significa anche, se si ha un’ambizione, lavorare per questo, fare sacrifici, anche rinunce personali. Allora come ora ti dicevano che eri un secchione. Li vedevi sfilare gli altri quando partivano per i viaggi al mare o in montagna, fare le cinque del mattino che tanto poi ho tutto il giorno per dormire. Studiare aveva un senso ieri e ce l’ha anche oggi. Quel che manca è il senso del dopo. Su questo Martone, ma soprattutto Monti e i ministri più di peso dovrebbero interrogarsi profondamente un po’ di più. Visto che non lo hanno fatto fino ad ora, tanto meno chi li ha preceduti nell’ultimo decennio. La vera sfiga è questa.❖ 


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