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Repubblica-Il ministro Moratti: finanziamenti, si cambia -"L'Università sotto esame dagli studenti voti ai prof"

"L'Università sotto esame dagli studenti voti ai prof" Il ministro Moratti: finanziamenti, si cambia criteri Il numero degli iscritti sarà solo uno degli indici in base ai quali saranno dat...

14/05/2004
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la Repubblica

"L'Università sotto esame dagli studenti voti ai prof"
Il ministro Moratti: finanziamenti, si cambia

criteri Il numero degli iscritti sarà solo uno degli indici in base ai quali saranno dati i soldi agli atenei
maturità Con l'esame gestito dai propri insegnanti nessuno potrà permettersi di non studiare
premi Premieremo chi fa ricerca, chi ha un minore tasso di abbandoni e chi vanta giovani più soddisfatti
stipendi In futuro gli stipendi dei docenti dovranno essere decisi dalle singole realtà accademiche
rinunce Purtroppo due ragazzi su dieci non arrivano al diploma. Ci siamo impegnati a dimezzare la cifra
percorsi Nella formazione professionale rafforzeremo la componente dei saperi di base che oggi è carente
Forum a Repubblica sulla riforma dell'istruzione: i nuovi programmi, il ruolo delle famiglie, la lotta alla dispersione

All'Università si volta pagina: gli studenti daranno un voto ai professori. Non pagelle spontanee, nate "dal basso", come s'usa fare in molte facoltà. Ma una valutazione che, incoraggiata dal ministero, avrà una ricaduta istituzionale, nel senso che inciderà sui finanziamenti dallo Stato ai singoli atenei. È una delle novità annunciate dal ministro Letizia Moratti nel corso di un forum a "Repubblica" sulla riforma dell'istruzione che ha suscitato tante polemiche, ma i cui decreti attuativi - ha assicurato il ministro - non avranno carattere definitivo, perché "è nella riforma la possibilità di modificare i programmi": se si fanno degli errori, in sostanza, c'è la possibilità di correggerli.
Moltissimi i temi messi a fuoco, in oltre due ore di discussione pacata: il darwinismo negato (poi riammesso) nel primo ciclo di studi; l'insegnamento a singhiozzo della storia antica (spiegata alle elementari, taciuta alle medie e ripresa nei licei); il finanziamento indiretto alle scuole private (s'aggira o meno il principio costituzionale?); lo stravolgimento del tempo pieno alle elementari; il bivio a cui è drammaticamente costretto un ragazzo tra i tredici e quattordici anni: liceo o formazione professionale; l'esame di maturità quasi totalmente affidato a professori "interni" (con evidenti vantaggi per la scuola privata); le scarse risorse finanziarie destinate alla Riforma. Tutte questioni che, al di là degli aspetti tecnici, toccano la visione stessa della scuola pubblica, luogo in cui dovrebbero annullarsi le differenze sociali, che invece rischiano d'essere enfatizzate.
"I nostri interventi nei settori della Scuola, dell'Università e della Ricerca - precisa Letizia Moratti - sono stati concepiti in una visione strategica, come un'unica filiera. Bisognava investire nella conoscenza, nell'istruzione, nella formazione e nella ricerca, costruire un sistema capace di coniugare equità e qualità. Nell'interesse del paese".
Ministro Moratti, una domanda preliminare. Per una vecchia tradizione della scuola italiana, tutte le Riforme sono state fatte con Commissioni nominate per decreto ministeriale. La composizione e le finalità venivano pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Lei ha seguito una strada diversa. Del suo gruppo di lavoro, forse con la sola eccezione del professor Giuseppe Bertagna, non si sa nulla.
"Ho ritenuto che un gruppo ristretto potesse lavorare meglio sulle indicazioni nazionali. Devo anche aggiungere che questo gruppo ha operato in stretto raccordo con gli stakeholder, ossia con le parti sociali coinvolte nelle tematiche della scuola, e successivamente con una Commissione allargata e con 65 associazioni disciplinari. Come vede, s'è trattato d'un lavoro assai approfondito, che è andato ampliandosi in corso d'opera".
Ma perché non affidarsi fin da principio a una commissione di esperti? Cosa che lei ha fatto prontamente quando è stato sollevato il caso di Darwin: le teorie evoluzionistiche erano state bandite dal primo ciclo, poi sono state riammesse.
"Devo dire che, quando abbiamo consultato le associazioni, sull'evoluzionismo non era stato mosso alcun rilievo. In seguito, dinanzi alle proteste, abbiamo dato una risposta immediata".
Tutti abbiamo sorriso su questa strana idea di sopprimere l'evoluzionismo dai programmi scolastici. Ma il disagio è stato forte: possibile che un'intera nazione si debba mobilitare perché non venga messa in discussione un'acquisizione scientifica ultracentenaria?
"Ripeto: la consultazione capillare avviata con le associazioni disciplinari non aveva registrato obiezioni. Poi ci siamo mossi con tempestività".
Ma una riforma della scuola, in una realtà complicata come l'Italia, non può limitarsi alla consultazione di 65 associazioni disciplinari. Deve coinvolgere tutte le componenti culturali e politiche del paese. Sul finire degli anni Settanta, il ministro Franca Falcucci arrivò a coinvolgere membri del Movimento Sociale Italiano, quando l'arco costituzionale ne prevedeva l'esclusione. È vero: i tempi si allungano, il lavoro rischia di complicarsi. Ma la democrazia è di per sé complicata.
"Lei ha ragione. Ma è per questo che anche i gruppi di studio che stanno lavorando sui licei, così come quelli che hanno lavorato sul primo ciclo, sono molto più numerosi e articolati, rispondenti alle diverse culture del paese. Una volta concluso il lavoro sulle differenti tipologie della scuola superiore, sarà avviata la consultazione con le associazioni disciplinari. La finalità della riforma è quella di rispondere ai nuovi bisogni d'una società che cambia".
Tra i nuovi bisogni che la riforma soddisfa sono inclusi anche i bonus per la scuola privata? Il sospetto è che si sia voluto aggirare la Costituzione: l'articolo 33 stabilisce che i privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato.
"Il principio che ci ha guidati è la ricerca d'un maggiore raccordo tra la scuola, le famiglie, le agenzie educative, gli enti territoriali, con una scuola più aperta alle esigenze sociali. In questo modo rispettiamo la libertà di scelta della famiglie, anche quella di inviare i propri figli in una scuola considerata "paritaria" grazie alla legge D'Alema (la legge 90 del 2000 sulla parità scolastica: D'Alema era presidente del Consiglio, ndr)".
Se ne ricava che la Costituzione attualmente vigente lede la libertà delle famiglie e per questo deve essere disattesa.
"No, esattamente il contrario. È in osservanza all'articolo 31 della Costituzione, non meno importante dell'articolo 33, che diamo alle famiglie meno abbienti l'opportunità di mandare i figli dove meglio credono. Non si tratta dunque d'un finanziamento alle scuole private: sono aspetti molto diversi".
Solo apparentemente diverse. Lei insiste molto sul ruolo delle famiglie. Il familismo viene considerato l'aspetto più ideologico della sua Riforma. Non c'è il rischio di caricare l'istituto famigliare di troppe responsabilità?
"C'è il rischio al quale lei allude e c'è il rischio contrario, ossia che le famiglie deleghino in modo eccessivo alla scuola la cura dei propri figli. Per questo ritengo che sia necessario trovare un nuovo equilibrio. Noi abbiamo un tasso di dispersione scolastica che è ancora purtroppo molto elevato. Negli ultimi due anni, è sceso del 2 per cento, ma siamo ancora a livelli alti rispetto alla media europea, intorno al venti per cento. Ci siamo impegnati con l'Europa di dimezzare questa cifra entro il 2010".
In che modo?
"Uno dei criteri ispiratori della Riforma è stata l'attenzione riservata agli studenti più bisognosi. Per permettere loro di accedere ai gradi più elevati dell'istruzione, abbiamo istituito - al termine della scuola dell'obbligo - il canale di istruzione e formazione professionale, che non esiste nel nostro paese in maniera strutturata al pari di tutti gli altri paesi europei. E che peraltro ci viene richiesto dall'Europa fin dal principio degli anni Novanta. Si tratta d'un percorso alternativo a quello tradizionale, che - dopo un periodo di integrazione - può anche sfociare nell'Università".
Ma non c'è il rischio che si tratti d'un canale dequalificato? Non a caso quest'anno sono cresciute le iscrizioni ai licei: le famiglie temono di mandare i propri ragazzi negli istituti professionali, dove regna l'incertezza sui destini futuri.
"Potrei citare il caso della provincia di Trento, dove da due anni si sperimenta il "doppio canale" (istruzione liceale e professionale) esattamente come viene concepito in base alla legge 53. I risultati sono incoraggianti: il doppio canale ha dato ai giovani la possibilità di inserirsi in percorsi ai quali prima non avevano accesso. C'è inoltre una buona possibilità di passaggio da un canale all'altro: nel dettaglio, è stato registrato un salto più frequente dall'istruzione professionale al liceo che viceversa".
Ma l'istituzione del canale professionale contraddice un fondamentale principio liberale che è colto dalla nostra costituzione: quello di eguagliare i punti di partenza. A questo s'è cercato di ottemperare in cinquant'anni di storia scolastica. L'ultimo grande esempio è quello della scuola media unica, che elimina di fatto la scuola dell'avviamento. Questa riforma non rischia di essere un passo all'indietro?
"Potrei risponderle che la scuola così come è strutturata adesso influisce in maniera molto scarsa sulla mobilità sociale. Noi in Italia abbiamo la mobilità sociale più bassa che si possa immaginare: un 6 per cento rispetto al 20 per cento registrato negli Stati Uniti. La grande sfida della scuola è proprio quella di eliminare le differenze sociali di partenza".
Ma allora perché non fare un biennio unico dopo la scuola media?
"Questo è un nodo delicatissimo, su cui stiamo riflettendo con molta serietà. Il profilo del secondo ciclo - nella diversa articolazione di licei e formazione professionale - sarà un profilo unitario. Questo significa che nella formazione professionale dovrà essere fortemente rafforzata quella componente dei saperi di base che attualmente non c'è. Quindi si dovrà arrivare a una sorta di convergenza nei primi anni, tale da poter consentire più agevolmente il passaggio da un canale all'altro".
Lei prima parlava della necessità di eliminare le differenze sociali. Ma la riforma rischia di accentuarle. Le scuole elementari, ad esempio. Il tempo pieno è nato negli anni Settanta con l'idea di dare a tutti i bambini le stesse opportunità formative. Oggi non è più così: il nuovo tempo pieno è suddiviso tra un tempo didattico, eguale ed obbligatorio per tutti i bambini, e un tempo aggiuntivo, che è un servizio facoltativo su richiesta delle famiglie. Questo significa che alcuni bambini rimarranno al doposcuola, altri potranno tornarsene a casa: è rimarcata una differenza.
"No, non è così. Nella circolare è specificato che le ore aggiuntive saranno distribuite all'interno di un orario equilibrato tra mattina e pomeriggio. Non si può parlare di doposcuola".
Mattina o pomeriggio, non cambia: è ribadita comunque una differenza tra i bambini che frequentano o meno ore aggiuntive rimaste facoltative.
"La nostra scelta è stata quella di personalizzare i percorsi, proprio per ovviare a una mobilità sociale molto bassa. Un sistema che s'è rivelato fruttuoso: i paesi che l'hanno adottato sono quelli che hanno raggiunto i migliori risultati: Finlandia, Norvegia, Canada, Inghilterra? I genitori potranno scegliere soluzioni più mirate per i propri figli. In fondo già ora le migliori esperienze lavorano per gruppi di alunni e non solo per classi".
Il tempo pieno - come è stato attuato fino ad ora - è un'altra cosa: un progetto didattico eguale per tutti. C'è poi una questione sostanziale, da cui dipende il futuro della riforma: le risorse finanziarie. Quando presentaste la Riforma a Palazzo Chigi, lei e Berlusconi annunciaste fondi per 15-18 mila miliardi di vecchie lire, ossia 8-9 miliardi di euro. Fino ad ora - stando ai dati del ministero - avete speso 90 milioni di euro e mancano due anni alla fine della legislatura. Secondo lei, le Riforme si possono fare a costo zero?
"Sono d'accordo sul fatto che le risorse sono scarse e debbano essere incrementate. Però vorrei dare un dato: il bilancio dell'istruzione, dal 2001 al 2004, è salito di quattro miliardi di euro: dai 35 ai 39 miliardi di euro".
Ma lei include in queste cifre anche il contratto degli insegnanti?
"Sì, certo: l'abbiamo fatto noi. Anche il bilancio dell'Università, dal 2000 al 2004, è aumentato sensibilmente: da 5,8 a 6,5 miliardi. Il numero dei docenti universitari, negli ultimi due anni, è cresciuto di un 14 per cento. Ne risulta nettamente migliorato il rapporto insegnanti-studenti. Quando ho assunto responsabilità di governo era di 21 studenti per docente. Ora è sceso al 19,7".
Lei dice che gli studenti universitari daranno un voto ai professori. Come accadrà?
"Sì, estenderemo a tutte le Università un sistema di valutazione che oggi esiste soltanto in alcuni atenei. In sostanza, sulla base d'un formulario elaborato con il Comitato Nazionale di Valutazione Universitaria, registreremo la soddisfazione degli studenti rispetto all'impegno e alla presenza dei docenti nella didattica, negli esami, nell'attività di orientamento".
In alcune università già si fa.
"Sì, ma questa valutazione non rimarrà senza effetti, come invece è accaduto finora: nel senso che ne terremo conto nell'erogazione dei finanziamenti. Oggi i soldi agli atenei vengono dati solo in base al numero degli iscritti. Ora il sistema cambierà: il numero degli studenti sarà solo uno degli indici, gli altri saranno la valutazione sulla ricerca, cosa che non era mai stata fatta e i cosiddetti indicatori qualitativi, ossia il tasso degli abbandoni, la durata degli studi, la capacità della facoltà di dare sbocchi professionali: in questa fascia inseriamo anche le pagelle degli studenti ai docenti. Aggiungo un punto: penso che in futuro gli stipendi dei docenti debbano essere decisi dalle singole università, che anche così potranno affermare la propria autonomia".
Le pagelle degli studenti: ma non è anche questa una scopiazzatura delle università americane private? Lì ha un senso: gli studenti sono clienti che pagano rette altissime. Qui c'è il rischio di alimentare il permissivismo, con conseguenze nefaste sia nelle scuole che nelle università. Mi sembra che anche in questo caso prevalga la filosofia della scuola-azienda.
"Io credo che la scuola sia una comunità educante. Quindi la sua prima missione è quella di formare persone e cittadini?"
? cittadini o persone? È diverso?
"Formare persone che poi possano diventare cittadini consapevoli e al tempo stesso buoni professionisti. In altre parole, coscienze libere, critiche, autonome. Stili di vita responsabili. Francamente non vedo dove stia la visione aziendalistica. Quanto al permissivismo, non può che trovarmi d'accordo. Noi abbiamo cominciato a mettere alcuni paletti: nelle scuole il comportamento è tornato a essere parte integrante nella valutazione".
Ma poi vige la consuetudine che un'insufficienza come un tre si trasforma in sei rosso, e il sei rosso uno studente se lo porta dietro fino alla fine.
"Non sarà più così. Fatta salva la libertà dell'insegnante di bocciare l'allievo alla fine dell'anno, i ragazzi comunque al termine di ciascun biennio - dalla scuola elementare alle superiori - dovranno dimostrare di avere tutte le conoscenze che permettono il passaggio al biennio successivo. Ultimo punto, l'orario: ogni singolo alunno, per passare all'anno successivo, dovrà mostrare di aver partecipato ad almeno due terzi delle lezioni".
Come la mettiamo con l'esame di maturità? In sostanza non esiste più. Affidato quasi interamente ai commissari interni, con un solo presidente esterno, perde in efficacia. Ed è un regalo alle scuole private per le quali sarà più facile promuovere i propri alunni senza controllo.
"Lei però deve inserirlo nel nuovo percorso didattico, che prevede valutazioni biennali".
Valutazioni sempre interne alla scuola.
"No, per carità di Dio: non è così! La valutazione biennale è esterna: essa è affidata all'Istituto nazionale di valutazione del Sistema di istruzione. Ogni studente sarà valutato sulla base d'una metodologia nazionale fissata secondo i parametri dell'Ocse. Dovrà rispondere ad alcuni questionari, che poi la scuola provvederà a rispedire all'Istituto Nazionale di Valutazione".
Ma questo serve a fare rilevazioni statistiche campionarie, non certo a stabilire il livello di apprendimento del singolo studente.
"Ma chi lo dice? È un sistema già partito in via sperimentale in moltissime scuole italiane: nel 2003 l'hanno adottato 9.800 scuole su 11.000. Diventerà legge all'incirca tra due mesi. Non sarà una panacea, ma è un criterio di valutazione".
Ma non può sostituire l'esame di Stato.
"L'esame di Stato continuerà a esserci, nelle modalità che abbiamo previsto. Molti osservatori sono favorevoli alla Riforma con questo argomento: i ragazzi, proprio perché sanno di essere giudicati dai propri insegnanti, non si potranno più permettere di non studiare per un lungo periodo, salvo recuperare nel finale".
Vorrei introdurre un argomento di cui si parla poco: l'immissione in ruolo di 15.000 professori di religione, selezionati da un'autorità religiosa. Si tratta d'una grave offesa alla laicità dello Stato: non era mai accaduto, in tanti anni di dominio incontrastato della Democrazia Cristiana. Sarà il vescovo, domani, a decidere chi deve insegnare nelle scuole italiane?
"Noi abbiamo soltanto dato seguito a un accordo tra lo Stato italiano e la Santa Sede".
Ultima questione: l'insegnamento della storia antica. Non si studierà più alle medie: dalle elementari si salta al liceo. Inutile dire che l'approccio critico d'un bambino di otto anni è diverso da quello d'un ragazzino di tredici. Molte scelte di questa riforma sembrano più improntate a un'intuizione rapida, che poi viene prontamente corretta, piuttosto che a una strutturazione culturalmente forte.
"No, questa è un'accusa ingiusta. Stiamo lavorando con grande rigore, senza approssimazione né frettolosità. Ripeto: la stessa riforma prevede la possibilità di variare alcune scelte: se ci sono modifiche da fare, non ci tireremo indietro".
(a cura di Simonetta Fiori)


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