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Orientamento: è davvero questo il problema?

Non siamo di fronte a un problema di indirizzare lo studente verso ciò che gli piace. Siamo di fronte a una questione ben più difficile: come assicurare all’insieme degli studenti le condizioni per progredire negli studi.

03/11/2014
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Secondo La Stampa del 9 settembre,“i fuoricorso che emergono da una ricerca condotta da Cepu e skuola.net … sono ragazzi che hanno sbagliato la prima scelta, alla fine delle superiori”. Il 22% degli studenti intervistati dichiara di non amare il proprio corso di studi. In realtà, dai dati dell’articolo non si può trarre nessuna conclusione, per il semplice fatto che non si tratta di una “ricerca” e nemmeno di un “sondaggio” con valore statistico ma di una semplice consultazione on line. Inoltre, il passaggio dalle  superiori (“scuola secondaria di secondo  grado”) all’università è sconvolgente per decine di migliaia di matricole, che non hanno imparato a studiare nei 13 anni precedenti passati sui banchi di scuola. Non siamo di fronte a un problema di indirizzare lo studente verso ciò che gli piace. Siamo di fronte a una questione ben più difficile: come assicurare all’insieme degli studenti le condizioni per progredire negli studi.

Secondo La Stampa del 9 settembre,“i fuoricorso che emergono da una ricerca condotta da Cepu e skuola.net sono molto diversi, sono ragazzi che hanno sbagliato la prima scelta, alla fine delle superiori, hanno pensato ad un corso di laurea che poi si è rivelato un errore”. Un altro articolo sullo stesso giornale chiede addirittura un “sistema di orientamento che dal basso arriva all’università” e un “esercito di orientatori di professione”.

Andiamo a rileggere la fonte originaria, un articolo on line pomposamente intitolato “Fuoricorso: colpa dell’orientamento”. La tesi espressa nel titolo si basa sul fatto che il 22% degli studenti intervistati (poi vedremo come) dichiara di non amare il proprio corso di studi, contro il 20% che attribuisce il ritardo nel percorso universitario al fatto di lavorare, il 12% al fatto che “ci sono troppi esami” e il 10% al fatto che il corso “è troppo difficile”.

I dati presentati da skuola.net sembrano un po’ magri per trarne conclusioni sull’orientamento, che pure è un tema di cui discutere, visto che le stesse percentuali potrebbero essere lette anche così: il 78% (100%-22%) degli studenti universitari italiani ama il proprio corso di studi, purtroppo il 35% dei fuoricorso è formato da fannulloni che si lamentano perché le materie sono troppo difficili, o perché ci sono troppi esami, o pochi appelli, o addirittura perché “non mi piace studiare” (10%+12%+8%+5%=35%).

In realtà, dai dati dell’articolo non si può trarre nessuna conclusione, per il semplice fatto che non si tratta di una “ricerca” e nemmeno di un “sondaggio” con valore statistico ma di una semplice consultazione on line dei frequentatori del sito skuola.net, alcuni dei quali hanno volontariamente risposto alle domande della rivista, come ci è stato gentilmente confermato dalla stessa redazione. Quindi i dati raccolti si basano sull’autoselezione del campione, un peccato mortale per ogni rilevazione statistica, che renderebbe privi di valore i dati anche se le risposte fossero state 1,2 milioni invece di 1.200 (un caso famoso avvenne nel 1936, quando la rivista americana Literary Digest invitò i propri lettori a dichiarare le proprie preferenze nelle elezioni presidenziali imminenti, sbagliando clamorosamente le previsioni nonostante l’elevatissimo numero di partecipanti alla consultazione).

Detto questo, il problema dell’orientamento esiste ma trasforma quelle che sono questioni strutturali della scuola e dell’università italiana in un problema individuale. Si può “non amare” il proprio corso di studi per mille ragioni, alcune buone (l’insegnamento è effettivamente carente rispetto alle necessità formative), altre cattive (“non mi piace studiare”). Ma se vogliamo affrontare seriamente i problemi dobbiamo evitare di psicologizzare le situazioni individuali e guardare al sistema nel suo complesso.

In questa prospettiva, scopriamo immediatamente che i percorsi formativi in Italia soffrono di vari mali, diversi però da quelli di cui si parla tutti i giorni, come l’esame di maturità, la valutazione degli insegnanti o la produttività scientifica dei professori. Il primo problema è la mai avvenuta riforma dei cicli, che rende traumatico ognuno dei tre passaggi che lo studente deve affrontare: dalle elementari alle medie, dalle medie alle superiori, dalle superiori all’università. Passaggi traumatici perché i singoli “pezzi” non sono mai stati concepiti in modo unitario ma sono il risultato di logiche diverse, di riforme parziali, di continui ritocchi senza capo né coda. Tutti sanno che lo snodo delle medie (ora chiamate “scuola secondaria di primo grado”) è un problema irrisolto dal 1963, nonostante i ritocchi ai programmi del 1977 e la riforma Gelmini del 2009: non a caso il momento della dispersione scolastica è il passaggio alla prima superiore, quando gli studenti si trovano ad affrontare un ambiente completamente diverso da quello cui sono abituati.

E neppure è un mistero il fatto che il passaggio dalle  superiori (“scuola secondaria di secondo  grado”) all’università è sconvolgente per decine di migliaia di matricole, che semplicemente non sono in grado di maneggiare con un minimo di destrezza la lingua italiana e alcuni concetti base di matematica e, soprattutto, non hanno imparato a studiare nei 13 anni precedenti passati sui banchi di scuola.

Quindi non siamo di fronte a un problema di indirizzare lo studente X verso ciò che gli piace, ciò per cui è portato, o ciò che è considerato di moda in questo decennio: siamo di fronte a una questione ben più difficile da risolvere: come assicurare all’insieme degli studenti le condizioni per progredire negli studi. L’orientamento è problema individuale, la coerenza e l’efficacia didattica di scuola e università sono problemi collettivi. (1-continua)


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