Mobilità docenti 2017: il grande caos, atto secondo: e agli studenti chi ci pensa?
Se la continuità didattica è un’importante precondizione per una scuola di qualità, quello in corso è un anno disastroso per ciò che dovrebbe contare di più, ovvero l’apprendimento degli studenti: il peggiore, da questo punto di vista, della storia della scuola italiana.
Oltre 250 mila insegnanti (uno su tre) quest’anno hanno cambiato cattedra: il più caotico “carosello” di docenti di sempre (+200% rispetto agli anni precedenti). Un anno nero per la continuità didattica. E il prossimo anno, dopo l’accordo Miur-sindacati, si replica: le famiglie italiane devono prepararsi a un’ulteriore girandola di docenti, che colpirà in particolare le scuole del centro-nord. Ma migliaia di docenti (soprattutto meridionali) resteranno forse delusi, i posti disponibili al Sud sono pochi.
Si è spostato il baricentro della scuola italiana, da sud (che ha perso in vent’anni mezzo milione di studenti) verso nord (+800 mila). L’emigrazione obbligata di docenti meridionali e il contestuale controesodo amministrativo consentito dalla mobilità schiacciano in troppi casi la relazione educativa docente-alunno.
Come se ne esce? Occorre lavorare in due direzioni…
Finite le vacanze natalizie, tornano in classe 7.818.469 studenti delle scuole statali, nell’anno scolastico che verrà ricordato per il più caotico “carosello” di docenti di sempre.
Un insegnante su tre quest’anno ha cambiato cattedra, tra trasferimenti dei docenti di ruolo e movimenti dei docenti non di ruolo. Vuol dire che almeno due milioni e mezzo di studenti hanno avuto come minimo un insegnante diverso rispetto all’anno precedente, ma in molti casi più di uno. Particolarmente colpiti gli alunni con disabilità, perché il 29,8% dei posti di sostegno sono “in deroga”, cioè non stabili, e i docenti di sostegno non di ruolo cambiano pressoché ogni anno.
Il tasso di mobilità degli insegnanti, che negli anni scorsi coinvolgeva circa un docente su dieci (una percentuale già di per sé elevata), quest’anno è esploso, si è addirittura triplicato, facendo saltare il banco della continuità didattica. È l’effetto del “piano straordinario di mobilità” previsto dalla legge n. 107/2015 sulla “Buona scuola”, preliminare al varo del piano straordinario di assunzioni voluto dal governo Renzi. In pratica un’“ultima chiamata” che doveva consentire al personale docente di spostarsi sulla sede più gradita anche “in deroga al vincolo triennale di permanenza nella provincia”. Fatto questa sorta di “condono”, doveva partire la nuova modalità di assegnazione della sede di servizio, la cosiddetta “chiamata diretta”: non sarebbe stato più il docente a scegliere la scuola, ma la scuola a scegliere il docente. È quanto prevede la legge n. 107, ma l’accordo sulla mobilità firmato dalla ministra Fedeli con i sindacati allo spirare del 2016 prevede una nuova deroga da ogni vincolo di permanenza per tutti i docenti di ruolo, compresi quelli chiamati con incarico triennale dai dirigenti scolastici. Pertanto il prossimo anno si replica: le famiglie italiane devono prepararsi a un’ulteriore schizofrenica girandola di docenti.
Le dimensioni del fenomeno hanno raggiunto limiti insostenibili: 207 mila docenti trasferiti nel 2016/17: il 30% dell’organico di ruolo degli insegnanti statali. Un movimento senza precedenti. Qualche esempio: +200% rispetto ai 69 mila trasferimenti dell’anno scolastico 2008-09; +267% rispetto ai 56 mila del 2009-10; +260% rispetto ai 57 mila del 2011-12. Flussi omogenei sul territorio? No: dei 207 mila trasferiti di quest’anno, almeno 130 mila sono docenti meridionali che dal nord si sono avvicinati a casa. Se in molti hanno parlato la scorsa estate di “deportazione” di docenti dal sud al nord, quello che è avvenuto con i trasferimenti è stato un vero e proprio controesodo di docenti meridionali che avevano preso il “ruolo” (cioè il posto stabile) al nord e poi hanno colto l’occasione per chiedere il trasferimento verso casa. Back home.
E non è finita qui: oltre al fisiologico numero di chi è andato in pensione (13 mila nel 2016), nel carosello di insegnanti che si avvicendano di anno in anno sulle cattedre italiane entrano i circa 100 mila docenti precari (supplenti annuali), che raramente sono confermati nella stessa scuola. Tiriamo le somme: ipotizzando che la metà di questi ultimi (quindi circa 50 mila precari) abbia ottenuto la nuova supplenza annuale in una sede diversa (stima per difetto), il numero di docenti che quest’anno hanno cambiato cattedra rispetto all’anno scolastico 2015-16 supera l’astronomica cifra di 250 mila (207 mila trasferiti + circa 50 mila precari). Un esercito in movimento su e giù per l’Italia, il 33% dei 768.918 docenti in cattedra quest’anno.
Questa grande “migrazione” di docenti è priva di effetti sul servizio scolastico? Nient’affatto. Se la continuità didattica è un’importante precondizione per una scuola di qualità, quello in corso è un anno disastroso per ciò che dovrebbe contare di più, ovvero l’apprendimento degli studenti: il peggiore, da questo punto di vista, della storia della scuola italiana. Un esodo biblico di docenti, prevalentemente da nord a sud, che hanno lasciato le scuole, le classi, gli alunni con i quali avevano impostato i progetti didattici previsti dal piano dell’offerta formativa di quegli istituti scolastici, e si sono spostati di città, prendendo servizio in altre sedi, che a loro volta hanno dovuto gestire l’integrazione di questi nuovi insegnanti nel loro contesto. Una frenetica girandola di cattedre, di storie, di volti, di progetti formativi e didattici interrotti e avviati altrove, di cambi di metodo di spiegazione e di valutazione, di relazioni educative spezzate e da ricostruire, che non potrà non avere nefasti effetti sui livelli di apprendimento di milioni di studenti. Non c’è da stupirsi se in città come Milano e Roma sia in atto, tra le famiglie più benestanti, una vera e propria fuga dalla scuola statale verso le scuole internazionali o addirittura verso scuole di altri paesi, Regno Unito in testa. Come dire, chi può evita un servizio ritenuto complessivamente non in grado di dare adeguate garanzie per il futuro dei figli. E non tanto per la qualità dell’insegnamento in sé, ritenuta nella maggior parte dei casi adeguata, ma per le disastrose condizioni organizzative del servizio. Un segnale da non trascurare, se ci si pone l’obiettivo – come dovrebbe essere per ogni servizio, pubblico o privato che sia – della soddisfazione dell’utenza.
A proposito di continuità didattica, uno studio di qualche anno fa della Banca d’Italia (redatto curiosamente solo in inglese), intitolato “Educational choices and the selection process before and after compulsory schooling“, che ha utilizzato fonti ISTAT e Miur, mostra che a parità di altre condizioni alla maggiore stabilità del personale docente corrisponde un minore numero di fallimenti scolastici. Al contrario, nelle scuole dove si verifica una forte rotazione dei docenti, il rischio delle bocciature e degli abbandoni aumenta.
Tra le ragioni indicate nello studio stanno la minore conoscenza della classe da parte degli insegnanti con incarico temporaneo e la mancanza di continuità didattica. Anche la prospettiva di dover cambiare scuola alla fine dell’anno incide negativamente sulla motivazione e sull’impegno del personale.
Alcuni anni fa, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 3104/2009, in sede giurisdizionale aveva dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di garantire la continuità educativo-didattica nei confronti di un minore disabile a mezzo della conferma dell’educatore che svolgeva attività di sostegno. La sentenza affermava un principio generale che nessuna norma legislativa o amministrativa ha successivamente tutelato con chiarezza, al punto che oggi dal punto di vista normativo la continuità didattica è una eventuale conseguenza organizzativa (spesso mancata) anziché essere un obiettivo da assicurare.
Un marasma organizzativo ingestibile
“All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta (…)”. Spiace sottolinearlo, ma il regolamento (falso) attribuito alla Real Marina del Regno delle Due Sicilie è forse l’immagine che con desolante efficacia può meglio richiamare il marasma organizzativo che ha caratterizzato l’attribuzione dei posti dell’organico delle scuole per il corrente anno scolastico, con centinaia di migliaia di insegnanti in movimento loro malgrado da una parte all’altra del paese. E che con tutta probabilità caratterizzerà anche il prossimo anno.
Del resto Tuttoscuola ha già descritto in passato la scuola italiana come una grande nave con un carico molto più pesante a prua (il centro-nord del paese, dove ci sono il 61% degli studenti), che fa scivolare gradualmente verso la prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al sud), dove per motivi sociali il pubblico impiego in generale e la scuola in particolare rappresentano, soprattutto per le donne, opzioni inevitabilmente prioritarie.
Ma quello che la demografia fa, la burocrazia disfa… Se ci sono più posti al nord, perché lì ci sono più studenti e meno docenti del luogo aspirano a quei posti, molti meridionali devono spostarsi per occuparli. Ma poi… ci pensa l’amministrazione – dietro la spinta dei sindacati, che fanno il loro mestiere, quello di tutelare gli interessi di lavoratori costretti a spostarsi per tutta la penisola per inseguire il miraggio di un posto fisso, ottenuto il quale hanno il comprensibile desiderio di riavvicinarsi a casa – a consentire a un numero elevatissimo di loro di ottenere il trasferimento (da prua a poppa, in questo caso), creando quel marasma. E il fatto paradossale è che solo una quota limitata dei docenti che chiedono il trasferimento ottiene il posto nella prima scelta indicata, perché nelle aree più gettonate i posti vacanti sono pochi; gli altri finiscono nelle province indicate più in basso nella loro lista di preferenze. Il prezzo pagato dal sistema però è salatissimo: da un lato, sforzi di gestione pesantissimi per gli uffici amministrativi periferici e per le istituzioni scolastiche (pensiamo ai dirigenti scolastici, “allenatori” che vedono partire in media un terzo della “squadra” sostituito da nuovi arrivati sconosciuti, da schierare in campo senza sapere bene che ruolo facciano e senza che si conoscano con gli altri compagni di squadra. Fuor di metafora, la stabilità del personale, se ci fosse, sarebbe garanzia per il conseguimento degli obiettivi fissati dal Piano triennale dell’Offerta Formativa); dall’altro lato, impatti negativi sul processo di apprendimento degli alunni. D’altro canto sindacati delle famiglie che possano opporsi non esistono…
Quale organizzazione potrebbe mai gestire il cambiamento contemporaneo di sede di un terzo del proprio personale? Nessuno si sogna di farlo, la scuola statale italiana invece sì. Immaginiamo l’Arma dei Carabinieri lasciare scegliere una nuova sede di servizio di un colpo a un terzo dei propri ufficiali, ispettori, sovrintendenti, appuntati e carabinieri (peraltro in gran parte meridionali): cosa ne sarebbe della conoscenza e del controllo del territorio, del legame con la popolazione? Ce la vedete, per fare un altro esempio, Poste Italiane Spa consentire a 48 mila dei propri dipendenti (tanti sarebbero un terzo dei 145 mila dipendenti totali) di cambiare di sede in un solo anno? Sarebbe il caos. Ci sarebbero uffici postali scoperti per lunghi periodi; postini con difficoltà a muoversi nel nuovo territorio di competenza; ne risentirebbe probabilmente la puntuale ed efficiente consegna di lettere e pacchi. E quindi non ci pensa nessuno a farlo. Ma dove si tratta di studenti e della sensibilissima relazione educativa con coloro che hanno il delicato compito di farli crescere culturalmente e come persone, affinché tanto per cominciare siano in condizioni più favorevoli per trovare domani un lavoro, ebbene in questo caso evidentemente non ci si pone remore. Si consente lo spostamento in un colpo del 33% del personale docente. E’ un miracolo che a settembre le lezioni siano partite, in un modo o nell’altro.
Mai un esercito di oltre 200 mila docenti di ruolo aveva cambiato sede in un solo anno scolastico. E il prossimo anno, dopo l’intesa Governo-sindacati del 29 dicembre, si annuncia come l’attuale. Molti di coloro che hanno trovato posto quest’anno o negli anni scorsi lontano da casa, magari al centro-nord, potranno ottenere il trasferimento più vicino a casa, magari al sud. E quanti arriveranno veramente nella sede desiderata, tenendo conto che solo in 13 mila sono andati in pensione? Dopo l’imminente accordo sulla mobilità 2017 ci sarà un altro algoritmo per metterlo in pratica, e ci sarà, c’è da esserne certi, un’altra ondata di proteste e di ricorsi per gli errori (veri o presunti) dell’infernale meccanismo informatico.
Non ci saranno docenti ‘deportati’ sugli ambiti, ma ci saranno migliaia di docenti (soprattutto meridionali) delusi per avere mancato l’obiettivo del ritorno a casa, perché in alcune aree l’offerta è sovrabbondante rispetto ai posti disponibili. La grande illusione, sembra essere il titolo del film che vedremo tra qualche mese. Ma anche il grande caos, atto secondo. Doppia beffa.
E comunque, nel prossimo settembre assisteremo nuovamente ad una instabilità del sistema con una diffusa precarietà di docenti, soprattutto e ancora una volta, nelle scuole settentrionali e centrali.
D’altronde si è trattato in qualche modo di una scelta obbligata per il neo ministro dell’istruzione, chiamata a viale Trastevere con il compito principale di ricostruire un rapporto di sintonia con il mondo della scuola e le sue rappresentanze sindacali, indispensabile anche per favorire l’implementazione della riforma della Buona scuola, “salvando” così innovazioni come l’alternanza scuola-lavoro, l’aggiornamento professionale obbligatorio, la premialità. Ciò che ha colpito è che nel commentare l’intesa appena siglata la ministra Fedeli abbia dichiarato: “Si tratta di una misura straordinaria: resta fermo infatti l’obiettivo prioritario della continuità didattica”. Forse dal 2018-19.
Sia chiaro: c’è da comprendere l’esigenza di chi – in gran parte donne – ha famiglia nel luogo di origine e deve lavorare fino a 1.400 km lontano da casa dovendosi pagare vitto e alloggio. Il disagio personale e familiare è enorme e richiede soluzioni strutturali: lo diciamo da tempo, va ripensata a fondo una nuova programmazione di domanda-offerta nel sistema scolastico. Finché ciò non avverrà, va tutelata con convinzione l’esigenza di questi docenti, fino a quando però non va a detrimento di altri diritti e interessi della collettività. Il cuore del problema sta proprio nel raggiungere un punto di equilibrio tra le esigenze dei singoli lavoratori e quelle della collettività, per un servizio pubblico essenziale come quello dell’istruzione dei giovani.
Viene prima il diritto dei lavoratori a un posto vicino casa o quello degli studenti ad avere un corpo insegnante stabile e integrato, possibilmente per tutto il ciclo scolastico?
“La scuola è degli alunni, non dei docenti e dei dirigenti. È per gli alunni e per le loro famiglie che la scuola vive ogni giorno; e ogni giorno tutto il personale scolastico opera nella scuola soltanto perché ci sono loro. È questa la centralità della scuola”. Sono parole dell’allora ministro dell’istruzione Tullio De Mauro, rivolte ai neo-dirigenti scolastici alla Luiss di Roma nel 2001. Una figura, quella del compianto insigne linguista, che come poche ha saputo essere in sintonia con gli insegnanti, tra i quali era popolarissimo. E quindi se lo diceva lui…
Come si esce da questa situazione? Come rendere stabile il sistema scolastico? Occorre lavorare in due direzioni. Da un lato, ridurre al minimo il precariato, intendendo che i posti utilizzati stabilmente dall’amministrazione scolastica siano coperti da personale di ruolo (cosa che non è avvenuta per decenni), assumendo quindi con contratto a tempo indeterminato la gran parte di coloro che lavorano con incarichi di supplenze annuali, dopo apposito concorso. E’ ciò che intendeva fare la riforma della Buona scuola con il piano straordinario di assunzioni, che va quindi portato a termine. Dall’altro, va preso atto dello spostamento del baricentro della scuola italiana.
Vediamo meglio di cosa si tratta:
– Da Sud a Nord: quel piano inclinato della scuola italiana
– Come uscire dall’impasse? Più scuola al Sud