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Manifesto-Perché la ricerca va di male in peggio

Perché la ricerca va di male in peggio Modelli universitari a confronto, i guai italiani. Parla Giulio Cossu LUCA TANCREDI BARONE ROMA "In Italia non c'è nessuno stimolo a essere bravi ricercat...

14/02/2004
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il manifesto

Perché la ricerca va di male in peggio
Modelli universitari a confronto, i guai italiani. Parla Giulio Cossu
LUCA TANCREDI BARONE
ROMA
"In Italia non c'è nessuno stimolo a essere bravi ricercatori". Giulio Cossu, medico, è uno dei più accreditati ricercatori italiani nel campo delle cellule staminali. È "naturalmente contrario alla riforma Moratti", ma non risparmia critiche all'università di oggi.

Ci spieghi perché.

Dopo anni di immobilismo in questo paese a un certo punto parte una ope legis e tutti quelli che hanno passeggiato in un corridoio universitario vengono assunti in ruolo a vita. Io stesso, a 29 anni, sono entrato con l'ope legis del 1981 perché ero un borsista. Dopodiché abbiamo saturato e si è creato un tappo per tutti quelli che sono venuti dopo. E da allora mi sarei potuto sedere, limitandomi a quel numero minimo di lezioni, e nessuno avrebbe valutato la mia produzione scientifica.

Lei ha lavorato in Francia e negli Stati uniti. In che modo le cose sono diverse?

La Francia è più simile all'Italia per molti aspetti. Ma lì ogni anno, in maniera regolare, i giovani ricercatori hanno la possibilità di accedere a un certo numero di posti, con un esame molto duro e una valutazione della qualità scientifica.

Invece negli Usa?

Il modello americano, che pure potrebbe funzionare, non credo sia esportabile in Europa. Perché ogni anno bisogna riguadagnarsi da zero il proprio status. E certe volte questo crea situazioni ingiuste verso l'individuo. Dopo il dottorato c'è un periodo di postdottorato dopo il quale il ricercatore chiede di diventare assistant professor. Una posizione a tempo determinato, solitamente 5 anni, durante i quali si cerca un posto da associate professor, cioè una posizione di ruolo. I professori una volta assunti possono negoziare stipendio, laboratori, strutture. Perché le università, che vivono sui grant ottenuti dai ricercatori, hanno tutto l'interesse ad avere i migliori ricercatori e a farli lavorare bene.

E il difetto dov'è?

Quando un bravo ricercatore di ruolo non riesce più a pubblicare e non garantisce più i finanziamenti, viene mobbizzato in maniera terribile. Gli pagano solo l'insegnamento, gli tolgono il laboratorio, viene messo da parte, senza un riconoscimento per il lavoro fatto. Trovo che ci possa essere una via di mezzo fra questo e l'estremo opposto, in cui una volta che uno ha un laboratorio non glielo porta più via neppure il ministro.

Lei cosa proporrebbe?

Un sistema in cui, oltre a un livello base di retribuzione, ci fosse un bonus proporzionale alla quantità di finanziamenti ottenuti su progetti di ricerca: questo motiverebbe le persone. Invece oggi i laboratori diventano i feudi di un potere gestito in modo medievale.

Il nodo del reclutamento è uno dei punti chiave per ogni riforma del sistema universitario.

In Italia purtroppo spesso si trasforma in una guerra tra poveri. E spesso anche chi è in buona fede è posto di fronte a un dilemma etico. Preferisco una persona che ho scelto anni fa perché era bravo, potendogli offrire solo contrattini poco dignitosi, e che ha cercato come ha potuto di tirare la carretta in attesa dell'unico posto? O magari quello che è stato negli Stati uniti, dove ha trovato un ambiente certamente più fertile e ha prodotto di più? Come posso dire arrivederci e grazie al primo senza avergli potuto offrire nulla? Ci sono pochi posti e un sistema che si basa su forme dischiavismo - lavoro mal retribuito e privo di prospettive concrete. E non è certo con un concorso, quasi sempre pilotato, che posso valutare un bravo ricercatore, con un ridicolo temino. I concorsi andrebbero aboliti e l'assunzione andrebbe legata alla capacità dei nuovi arrivati di attrarre finanziamenti.

Perché secondo lei il nostro sistema non funziona bene?

Primo, le persone che distribuiscono i fondi sono elette da chi li riceve, con la conseguenza che vengono dati a pioggia e si formano delle "cosche". Negli ultimi anni per fortuna conta anche la peer review, il giudizio della comunità scientifica. E poi la nostra comunità è troppo piccola, per forza ci conosciamo tutti. L'altra tragedia del nostro paese è che si rimane professori nelle stesse sedi dove ci si laurea e magari si fa il dottorato... senza aver avuto occasione di conoscere realtà diverse.

Oltre a insegnare alla Sapienza di Roma, lei lavora con il San Raffaele di Milano. Non vede una contraddizione in questo suo ruolo nel pubblico e nel privato?

C'è un distinguo da fare. Un conto sono le industrie o le case farmaceutiche, un altro le fondazioni come il San Raffaele. Lo stimolo a fare ricerca finalizzata è meno forte e rimane la libertà di fare una ricerca di base di buona qualità. Le università invece sono sclerotizzate - anche per l'età di chi ci sta dentro - ed elefantiache, mancano competitività e dinamismo. Impossibile rendere più efficiente la ricerca.

Il 17 lei manifesterà?

Certo, aderisco perché è importante. Ma la piazza non è nella mia natura. Sono un topo di laboratorio, è lì che mi sento a mio agio ed è lì che vorrei fare bene il mio lavoro.


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