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Manifesto-Ci giochiamo il futuro

Ci giochiamo il futuro Ma lo smantellamento del sistema industriale e l'abbandono degli investimenti in ricerca e innovazione nascono prima di Berlusconi, con l'ubriacatura della new economy e del ...

09/08/2003
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il manifesto

Ci giochiamo il futuro

Ma lo smantellamento del sistema industriale e l'abbandono degli investimenti in ricerca e innovazione nascono prima di Berlusconi, con l'ubriacatura della new economy e del "piccolo è bello". Contro il declino, Epifani chiama Cisl e Uil alla mobilitazione
Il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani commenta i dati dell'Istat che strappano il velo di bugie con cui si tentava di nascondere la crisi: l'Italia è in recessione. E' la conseguenza delle scelte disastrose di politica economica del governo Berlusconi
LORIS CAMPETTI

Allora, avevate ragione voi? "Purtroppo sì". Sono mesi che la Cgil - e in particolare il suo segretario generale Guglielmo Epifani - lancia l'allarme sul rischio declino del sistema-Italia. Prima sbeffeggiata, poi inascoltata, finché uno alla volta tutti gli indicatori economici e, al seguito, gli altri sindacati, la Confindustria, le istituzioni internazionali e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio hanno cominciato a parlare di crisi del paese. Ora i dati dell'Istat che confermano la recessione. Ma se sull'analisi quasi tutti (lasciamo stare i teorici della finanza creativa) si dicono d'accordo, quando si parla degli interventi necessari per ricondurre la barca sulla rotta dello sviluppo si delineano due schieramenti opposti (anche perché forse è opposta l'idea stessa di sviluppo). Ne abbiamo parlato con il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani.

Alla fine i numeri hanno confermato che le vostre preoccupazioni erano realiste e non catastrofiste.

Chi come noi aveva indicato da tempo il vero stato dell'economia italiana non può che vivere un sentimento di forte preoccupazione. Ma anche d'indignazione, perché era chiaro che tutte le scelte di politica economica che si andavano facendo ci avrebbero portato a questo punto. Chi negava i rischi di declino di declino industriale sapeva benissimo come stavano le cose, ma mentiva. Ora si tratta di spingere nella direzione giusta per uscire da questa fase di recessione e dallo stato in cui versa il nostro sistema industriale. La nostra indignazione non è fine a se stessa e intendiamo ribaltarla in mobilitazione sociale, civile e intellettuale per riportare la discussione sui binari giusti. Cioè sul che fare.

La Confindustria, con cui un mese fa avete firmato un accordo insieme a Cisl e Uil e con cui condividete la critica alla politica economica del governo, fino a chiedere interventi importanti per rilanciare la ricerca, l'innovazione e il Mezzogiorno, una ricetta ce l'ha: per ridare competitività al sistema Italia non resta che perseverare sulla strada del taglio dei costi, dei salari, delle pensioni, del welfare, delle tasse.

Lo so bene. I profeti del miracolo economico presentano una ricetta vecchia e iniqua. Vecchia perché non coglie le cause vere della perdita di competitività e iniqua perché pretende di far pagare due volte la crisi ai lavoratori e ai pensionati, scaricando su di loro il costo del cosiddetto risanamento e penalizzando ulteriormente gli enti locali.

E quali sono le cause della perdita di competitività?

Dire che si deve lavorare di più e scioperare di meno, come fa Berlusconi, è una sciocchezza perché il problema vero che sta a monte dei numeri in rosso del fatturato, del pil, delle esportazioni: sta nella qualità di quel che produciamo. Dobbiamo tornare a produrre beni e servizi di qualità. Non lo dice Epifani, lo dice l'indagine annuale di Mediobanca che denuncia il calo, per la prima volta da 10 anni, del fatturato. In calo nonostante gli oneri fiscali, il costo del danaro, il costo del lavoro per unità di prodotto siano tutti sostanzialmente in discesa. Il fatto è che soltanto una parte infenitesimale degli investimenti sono finalizzati ai prodotti, alla ricerca e all'innovazione. Le nostre imprese hanno un cash flow positivo, ma le risorse generate vengono spese in modo sbagliato, sperperate in speculazioni finanziarie. I nostri imprenditori stanno operando in condizioni assolutamente favorevoli: vogliamo parlare della flessibilità, dopo il Patto per l'Italia e il varo della legge 30? La strada è un'altra, e passa per la definizione di una politica economica del tutto diversa da quella del governo. Direi che è necessario un cambiamento radicale di mentalità.

Certo, le responsabilità di Berlusconi e della finanza creativa. Però non mi convince l'idea che il declino sia semplicente il portato della politica di oggi. E da un bel po' di tempo che l'Italia non investe sulla ricerca e che l'apparato industriale chiude bottega, pezzo dopo pezzo. Vogliamo spendere una parola anche sulle responsabilità dei governi di centrosinistra?

Spendiamola pure qualche parola. Si può dire che i governi precedenti sono stati costretti a sacrificare una politica di sviluppo sull'altare di Maastricht e della stabilità, non so se si sarebbe potuto agire diversamente. Ma è un fatto che da anni la spesa per la ricerca e l'innovazione va indietro. Poi, sicuramente c'è stata una sopravvalutazione della portata della new economy, un'ubriacatura direi. Io credo che la new economy abbia una forza importante di traino, ma passata la prima fase di investimenti sulla comunicazione, il problema era di collegare l'informatica alla produzione tradizionale di beni merceologici e servizi. Faccio un esempio: l'auto di oggi è tutt'altro che un'industria obsoleta, grazie a tutta l'elettronica e l'informatica che incorpora. Se la Fiat se ne fosse resa conto, se avesse investito nel prodotto e nella ricerca, ora la nostra più grande industria non si troverebbe in condizioni disperate. Un altro errore dei governi precedenti - un'altra ubriacatura? - è stato quello di puntare oltre misura sulle piccole e medie aziende. Il piccolo sarà anche bello, ma ha dei limiti in uno scenario globale. Come si può pensare che le piccole e medie imprese possano investire nella ricerca la quantità di energie imposte dalla competitività internazionale? E come si può pensare, anche nel made in Italy, di competere solo attraverso l'abbatimento dei costi, comprimendo e delocalizzando? Su questa strada si incontrerà sempre chi comprime e taglia di più?

Il quadro dipinto da Luciano Gallino nel suo ultimo libro è impietoso: il declino della chimica, della farmaceutica, il suicidio dell'informatica, oggi una crisi epocale dell'industria automobilistica... Da dove si può ripartire?

Se facciamo una tac al nostro sistema industriale vediamo che qualcosa ancora resiste. Le costruzioni, in funzione anticiclica ma non in collegamento alle grando opere, piuttosto nei microinterventi legati alle abitazioni e alle ristrutturazioni. Poi l'alimentare, un settore importante, di qualità, forse la più grande impresa italiana oggi. Ancora, una parte del made in Italy, quello di qualità, che sta pagando il deprezzamento del dollaro ma anche le scelte sbagliate di cui sopra. Una parte della meccanica, su cui abbiamo ancora i requisiti per reggere sui mercati internazionali. I servizi, sapendo che l'80% degli investimenti pubblici sono fatti dagli enti locali, non sono certo sostenuti dalle scelte politiche centrali. Infine, i trasporti e la logistica dove si pagano troppi errori. Pensa allo sciocco conflitto tra Fiumicino e Malpensa: avendo rinunciato a un' integrazione, meglio dire a una sinergia di sistema, sono andati in crisi entrambi i sistemi aeroportuali. E la portualità, che pure ha vissuto una stagione positiva, ora sta finendo in mano straniera.

E ti pare che di queste preoccupazioni ci sia traccia nelle scelte del governo (e di gran parte dell'opposizione)?

Purtroppo no. Sai che, a un mese di distanza dalla richiesta di incontro avanzata da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria al governo, ancora non abbiamo ricevuto una risposta, una convocazione? O si ignorano le nostre preoccupazioni, o ci si rifugia nella cosiddetta finanza creativa.

E in più, alla vostra richiesta di costruire iniziative unitarie di lotta, Cisl e Uil rispondono stizzite che con intendono aderire a iniziative altrui, e che voi siete colpevoli di aver fatto uno sciopero contro il declino e di averne indetto un altro alla ripresa autunnale.

Non è stata colta la portata unitaria della nostra richiesta che non nasconde alcuna pretesa egemonica né estremismi. Noi diciamo che se il governo intende mette delle pezze alla crisi attaccando lo stato sociale, o le pensioni, o tagliando i fondi agli enti locali, ciò è conseguenza di una politica economica sbagliata. Una scelta è figlia dell'altra. E chi difende welfare e pensioni dev'essere conseguente. Che farà il governo a settembre? Noi riconfermeremo le nostre richieste, e ci possono rispondere in tre modi: a) muoversi su una linea di galleggiamento rimandando le scelte a dopo il semestre italiano alla guida dell'Europa; b) procedere sulla linea inaccettabile dei tagli alla spesa sociale; c) raccogliere le nostre indicazioni. Alla terza ipotesi credo poco, ma non ho atteggiamenti pregiudiziali. Nelle altre due ipotesi non potremo che dare una risposta coerente e chiamare i lavoratori e i pensionati a una mobilitazione generale. Non intendiamo cadere nella trappola di partecipare a inconcludenti tavoli o ad astratti richiami a una concertazione che non c'è.

Cirio, Fiat: mi pare che il governo affronti le questioni economiche più importanti in chiave di stretto interesse politico, di parte. La sua parte.

Cirio, Fiat, ma anche Mediobanca, sistema assicurativo: non c'è un'idea di politica industriale e finanziaria ma solo interventi propedeutici alla difesa degli azionisti e delle banche. Pazienza se gli effetti ricadranno sull'occupazione, pazienza se si penalizzano o si cancellano marchi e know how. Siamo tornati alla partitizzazione dei partner economici. Finmeccanica fa scelte che sembrano servili nei confronti degli Usa (non penso solo alla Fiat Avio finita alla Carlyle), Tremonti che lascia filtrare in modo minaccioso ipotesi di intervento sulla Fiat (magari per liberare la Gm americana dalla put option, ndr). Penso al corridoio 5 che dovrebbe collegare la Spagna e Lione con Lubiana, un'occasione importante anche in relazione all'argamento a est dell'Unione. Qui ci giochiamo il futuro, altro che il ponte sullo stretto. Mentre servirebbe un rapporto positivo e alla pari con Francia e Germania, il nostro governo apre conflitti a ripetizione, con il rischio che il corridoio ce lo facciano passare sopra le Alpi, saltando il territorio italiano con tutto quel che tale scelta comporterebbe per la nostra economia.

Se la strada dei tagli alla spesa sociale e alla contrazione dei diritti è sbagliata e non aiuta a recuperare competitività, qual è l'altra strada? O meglio: dove si trovano i soldi per rimettere il nostro trenino economico sui binari da cui ha deragliato?

Strumenti indistinti e a pioggia non servono, un po' d'Irpef tagliata di qua, un po' d'Irpeg di là. Intanto bisogna decidere dove si mettono i soldi, e io ripeto che bisogna investire in qualità, cioè in ricerca, sviluppo, innovazione. Ma la testa e le scelte oggi stanno andando dalla parte opposta alla strada da percorrere. Vogliamo parlare dell'abolizione della tassa di successione? I soldi vanno presi dove ci sono. E non sono nelle tasche dei lavoratori e dei pensionati.


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